Fino a questa retrospettiva, dedicata dal MASI di Lugano al fotografo zurighese Werner Bischof (Zurigo 1916- Perù 1954), non mi ero mai soffermato sul valore delle parole con cui in alternativa si può chiamare una macchina fotografica, cioè CAMERA fotografica.
Il termine camera rimanda direttamente a uno spazio architettonico all’interno di un edificio, di una casa, uno spazio con una sua funzione specifica: cucina, salotto, bagno, camera da letto, con determinate regole o canoni da rispettare per sviluppare al meglio quelli che alcuni definirebbero il suo feng-shui.
Osservando le fotografie di Bischof ho compreso come il mestiere del fotografo non sia molto distante da quello di un arredatore o di un architetto che sceglie i mobili e gli elementi migliori per riempire una camera che alla fine diventerà una fotografia. E proprio come un designer d’arredamento, anche il fotografo deve saper sfruttare al meglio le caratteristiche e conoscere i segreti degli strumenti a sua disposizione.
Nel caso del fotografo svizzero, i segreti di tre camere molto differenti: la Devin Tri-Color Camera, la Rolleiflex e la Leica.
Brillante l’idea delle curatrici Ludovica Introini e Francesca Bernasconi, in collaborazione con Werner Bischof, figlio di Marco Bischof e conservatore del fondo del padre, di individuare nei differenti mezzi tecnici le sezioni in cui suddividere la mostra.
Un’esposizione stupenda costituita nella sua interezza di scatti ritrovati in archivio, realizzati tra il 1939 e il 1949, e mai esposti prima di uno dei maestri del reportage e tra primi membri della Magnum.
Ogni mezzo aveva i suoi pregi e i suoi difetti nell’utilizzo e facendo scorrere lo sguardo alle pareti vediamo come Werner Bischof abbia saputo farli suoi.
Cominciamo dalla Devin Tri-Color Camera, prodotta in America, una delle prime macchine fotografiche che permetteva di ottenere immagini a colori. Questo grazie a con un complesso triplo negativo su vetro basato sulla teoria additiva dei colori base dello spettro: rosso, verde e blu. Un sistema non molto dissimile dai monitor dei nostri computer e di alcune stampanti contemporanee, nello specifico tre negativi in bianco e nero venivano esposti con tre filtri dei differenti colori e poi composti in fase di stampa. Una macchina di una certa dimensione, che richiedeva lunghi tempi di esposizione e buone fonti di luce.
Bischof con essa riesce a ottenere non solo delle bellissime fotografie di studio con oggetti e modelle che sembrano anticipare gli scatti di Cindy Sherman o delle astrazioni di puro colore che ricordano alcune immagini di Wolfgang Tillmans, ma anche a girare per la Germania post bellica e a descrivere lo stato di distruzione dovuto ai bombardamenti alleati, i primi sforzi per ricostruire giochi di bambini tra le macerie o il volto di minatori e operai che sembrano fuoriusciti dai quadri di Rembrandt o Caravaggio. D’altronde Werner Bischof era un pittore mancato e ai grandi della Storia dell’arte non poteva non guardare per trarre ispirazioni per i suoi scatti. Lui stesso scrive: «Nel cuore resto pur sempre un pittore che passando accanto alle cose le vede a colori».
La forza di queste immagini a colori risiede nell’attualità e nella potenza data anche dalla cornice astratta creata dalla sovrapposizione delle tre gelatine differenti che gli donano un’aria pop. Peccato che siano rimaste inedite fino a ora e che ai suoi esordi l’utilizzo del colore nella fotografia non fosse apprezzato per la realizzazione di fotografie artistiche perché fino ad allora, visti i costi elevati di produzione e realizzazione, veniva usato solamente per la riproduzione di pubblicità di beni di lusso.
Proseguendo nella mostra ci si imbatte nei prodotti nelle fotografie realizzate da Bischof con Rolleiflex di medio formato con un negativo 6×6. Una macchina sicuramente più maneggevole e che permette degli scatti più intimi, quasi “rubati”, dato che avendo un mirino posto sull’alto per inquadrare non è necessario portarsi il mirino all’occhio. Il formato quadrato è una caratteristica che a noi, oggi, non può che ricordare Instagram e che Bischof sa sfruttare al meglio, forse grazie agli insegnamenti del suo maestro Hans Finsler alla Scuola di Arti Applicate di Zurigo. Le immagini vengono composte su più piani come delle quinte teatrali con gli elementi compositivi che si sormontano per dare profondità. Spesso una diagonale guida lo sguardo dello spettatore verso un punto focale in cui magicamente compare una figura umana, in una sorta di caccia al tesoro che ricorda la serie di libri per ragazzi “Dov’è Wally?”.
Bischof dimostra di essere un maestro nel cogliere l’attimo, quando riesce a sfruttare fenomeni come i riflessi nelle pozze d’acqua, e di avere un occhio allenato per vedere la composizione perfetta. Tutto questo in viaggio per il mondo per la realizzazione di reportage, dall’Italia, all’India fino al Giappone per testimoniare la vita umana.
La macchina fotografica manifesto per più di una generazione di fotoreporter è stata indubbiamente la Leica e Bischof si dimostra ancora una volta un abile utilizzatore.
Con una pellicola 35 mm di formato orizzontale, maneggevole e leggera, ma soprattutto con la nascita delle prime pellicole a colori di questo formato come la Kodachrome e la Ektachrome, la Leica diviene la sua fidata compagna di viaggio on the road attraverso gli Stati Uniti e alcuni paesi del Sudamerica, tra cui il Perù.
Bischof ha lo sguardo di un pittore e nelle serie americane raggiunge il suo apice. Atmosfere sospese: un uomo di fronte al murales di Joan Mirò all’Università di Harvard, un soggetto degno di Edward Hopper. I riflessi dei fari delle macchine sull’asfalto bagnato divengono macchie di luce alla Rothko. Un manifesto strappato ricorda Mimmo Rotella. Gli scatti a Machu Picchu sono dei disegni di Escher.
Werner Bischof fino a questa mostra era un maestro riconosciuto della fotografia di reportage in bianco e nero.
Dopo questa mostra diviene probabilmente un maestro riconosciuto della Fotografia e dell’Arte.
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Interessante lo scritto, ma mi sembra di rilevare parecchi errori storici e confusione sulla tecnica.
Usare filtri colorati su pellicola bianco e nero non da un negativo a colori.
Kodachrome si, ektachrome no.
Pellicola 35mm orizzontale non ha un senso.
Camera penso sia riferito al termine inglese della camera a tenuta di luce dove passa la pellicola, mai sentito a un riferimento architettonico.
Però non sono un professionista e può essere che mi sbagli nell'interpretazione.
Inoltre di è convertito il senso della frase tra padre e figlio.