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Immaginando “Salon”, la prima personale di Alessandra Bettolo, artista italo- londinese, architetto e attivista, nessuno avrebbe pensato che le date fissate per l’apertura potessero coincidere con i momenti più alti della mobilitazione internazionale per la morte di George Floyd e che la pandemia Covid-19 ne avrebbe rimandato l’apertura per una stagione. La mostra è finalmente visitabile su appuntamento, con tutte le precauzioni legate alla situazione attuale, alla Muse Gallery di Montecarlo.
Alessandra Bettolo, con il suo lavoro, si occupa di ridisegnare il contesto e l’interpretazione della ritrattistica convenzionale, riscattandola dalle tante derive discriminatorie. Soggetto dei suoi quadri, sono i figli che ha adottato nel Sudafrica post- Apartheid di Nelson Mandela e dei processi di riconciliazione nazionale. La mostra si è trasformata anche in una occasione di beneficenza per un’azione umanitaria. Rita Rovelli Caltagirone di Muse Gallery e Donatella Campioni, direttice di Map – Monaco Aide Presence, hanno creato un’iniziativa di sostegno per il centro Edimar Princesse Grace di Yaoundé in Camerun, offrendo un aiuto concreto, educativo e sanitario a giovani in difficoltà sul territorio africano. L’estratto del mio testo in catalogo, accompagna il contenuto militante del lavoro dell’artista. Un tentativo di riscrittura per i contenuti della storia dell’arte che alcuni artisti contemporanei, hanno intrapreso con forti valenze antirazziste e antidiscriminatorie.
L’universo pittorico di Alessandra Bettolo ingloba, nella sua personalissima stanza-mondo, la volontà di fondere meravigliose visioni d’interni con l’esplorazione dell’altro. Una pratica artistica i cui obiettivi vanno al di là del quadro e sfociano nell’idea di una società armoniosa in cui le differenze di genere, etnicità e religione siano abolite. Le figure dipinte e disegnate sono i suoi figli, lei stessa, gli amici e una cerchia ristretta di persone che guardano lo spettatore con espressione di fierezza, malinconia alterità o meraviglia e i sentimenti di empatia che ne risultano sono assolutamente naturali. Eppure la perfetta architettura dei suoi lavori mescola, nell’iconografia calcolata e precisa, molto di più di quanto chiaramente riveli. Attraverso la sua arte, cerca di rompere ogni stereotipo per liberare lo sguardo dal filtro opaco di ogni tipo di discriminazione.
Alessandra Bettolo rilegge con Lacan il concetto junghiano di “persona” facendo coincidere il sé con il Reale. L’artista costruisce per i suoi soggetti uno spazio nel quale si opera una trasfigurazione, per lasciare lavorare la psicologia profonda del ritratto che simultaneamente si manifesta davanti al pubblico e all’artista. L’immagine di noi stessi, che inconsciamente costruiamo per affrontare il mondo, per rappresentare i nostri pensieri e affermare la nostra identità.
I dipinti sono generalmente costruiti su piani differenti: le figure, il loro supporto e uno sfondo, che contiene come in uno spazio progettuale la qualità del suo pensiero. Alessandra Bettolo sostituisce allo sfondo, una personalissima collezione di suggestioni letterarie e visive. La figura mostrata è di solito immobile e affronta lo spettatore con una postura strutturata con i gesti penetranti della pittura classica. Fin qui nessuna deviazione dall’applicazione di regole precise a un’idea conosciuta: la ricetta di stampo rinascimentale per l’immagine perfetta. C’è fortunatamente l’inquietante margine concettuale di ogni rappresentazione, al quale l’artista aggiunge erotica compostezza. Lo fa spostando i suoi soggetti in una solitudine sacrale, seguendo idee che nascono spesso da immagini sconcertanti.
Per riprendere il titolo delle opere raccolte in questo “Salon” autobiografico occorrerebbe simultaneamente frequentare assiduamente le metropoli dei paesi in cui Alessandra ha vissuto nei quattro angoli del pianeta. Oppure ritracciare la storia del rifiuto dell’Olimpia di Manet al Salon parigino. La storia dell’arte antica e recente è lastricata di gossip e scandali. Sul primo vero scandalo della pittura contemporanea si lessero critiche esacerbate. Che il fondo fosse dipinto con il lucido da scarpe e mentre tutti si affannavano a discernere il vero significato del quadro – una prostituta che riceve fiori dal suo amante – l’artista compiva, come Alessandra Bettolo, una precisa operazione semiotica. Quello che interessa a noi oggi è che la splendida servante noire dopo più di un secolo è uscita dall’anonimato. Laure, la très grande negresse che abitava la rue de Vintimille, esce dai carnet dell’artista e ha finalmente guadagnato una identità. “Le modèle noir”, titolo di una recente e splendida mostra al Musée d’Orsay, grazie al cielo abita da sempre la pittura di Alessandra Bettolo, in primo piano e non sullo sfondo. Il soggetto non serve più da contrasto cromatico, come nella pittura dell’Ancien Régime.
Grazie al cielo, e lo si può vedere (e lo si vedrà sempre più) nelle sale di gallerie e musei di tutto il mondo, l’arte non ha più costrizioni di genere ed etnicità. I lavori di Alessandra Bettolo portano le tracce di una attività performativa, di una gioventù cosmopolita, libera dai pregiudizi. L’artista dipinge i suoi figli come personaggi dignitosi impavidi e fieri, figure regali di un racconto, per i quali ha saputo creare un’aura intemporale. Un cameo intagliato come un gioiello dentro il nostro tempo e fissato per sempre in una duratura classicità.