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Nel suggestivo spazio dell’Ex Chiesa di San Mattia nel cuore di Bologna è visitabile fino al 27 giugno “Portal”, la prima mostra personale in Italia dell’artista portoghese Alexandre Farto aka Vhils, pensata per raccontare quest’anno di pandemia. Un’installazione immersiva site specific composta da venti porte su cui Vhils ha inciso i volti, gli sguardi degli abitanti di Bologna con un accompagnamento sonoro che registra i rumori della città, le voci delle persone e i suoni della tecnologia. I ritratti sono frutto di uno shooting dedicato che si è svolto presso MAGMA Gallery a febbraio dopo un paio di mesi di ricerca. I bolognesi che hanno prestato i loro volti a questo progetto saranno i protagonisti di un breve documentario che racconterà le loro storie personali su come hanno affrontato la pandemia e verrà girato nel periodo di apertura della mostra.
“Portal” è il primo di una serie di progetti che MAGMA Gallery intende realizzare nell’ex chiesa, con mostre personali site specific per dar voce ad artisti internazionali legati all’arte urbana. Abbiamo intervistato Vhils, che ci ha raccontato come è nato questo progetto in un momento estremamente difficile, pensato a distanza per offrire un’interpretazione attraverso l’arte di quanto la pandemia abbia cambiato il nostro modo di vedere la realtà.
Le parole di Alexandre Farto aka Vhils
Nei Suoi lavori è centrale il ritratto, lo sguardo. In particolare, in questo progetto “Portal”, realizzato durante la pandemia, quale messaggio voleva comunicare attraverso i volti degli abitanti di Bologna?
«È stato un anno complicato, in cui ho dovuto interrompere i viaggi e i contatti con le persone che sono al centro del mio lavoro. Ho voluto raccontare questa nuova realtà che ci ha coinvolto tutti rendendoci in qualche modo prigionieri della globalizzazione, isolati fisicamente ma in connessione continua grazie alla tecnologia. Questa duplice dimensione è raccontata anche dall’accompagnamento sonoro che è stato realizzato per l’installazione: quattordici minuti che registrano i rumori della città di Bologna, le voci delle persone e il suono dei cellulari che ci ha sempre accompagnato in questo anno di chiusura. È un omaggio alla forza delle persone, alla resistenza che ciascuno di noi ha dovuto esercitare per uscire dalle difficoltà».
Anche la porta, è un tema ricorrente nei suoi lavori, ma in questo particolare ambiente, appunto quello di un’ex chiesa, queste superfici sembrano assumere una valenza diversa, quasi estranea alla città, che cosa esprimono?
«La porta è un elemento che mi ha sempre affascinato perché è denso di significati e viene interpretato in maniera diversa in ogni cultura. Le città medioevali ad esempio, come Bologna, sono circondate da porte, che proteggono, isolano e dividono. Allo stesso tempo si aprono e consentono di condividere con gli altri le emozioni, il proprio vissuto. Durante la pandemia le porte hanno acquisito ulteriori valenze simboliche e sono diventate un elemento che abbiamo condiviso tutti nello stesso momento. Ho voluto realizzare una sorta di “totem” dell’individuo in un momento insolito in cui l’umanità ha sperimentato purtroppo la paura, la solitudine e un acuto senso di limitazione della libertà».