La Galleria Gracis di Milano presenta il grande ritorno dell’artista catalano Antoni Tàpies, in onore del centenario della sua nascita (Barcellona, 1923 – Barcellona, 2012), dopo la celebrazione istituzionale milanese del 1985 attraverso un’importante antologica a Palazzo Reale, unitamente a Galleria Bergamini, Galleria del Naviglio, Studio Marconi e Galleria Seno. Curata da Luca Massimo Barbero, la mostra riunisce una raccolta di 23 opere, che vanno a coprire l’intero percorso dell’artista, dal 1959 sino ai lavori più recenti del 2006. In galleria, macigni pesantissimi “da parete”, spiagge deserte abitate da cifre e firme, cartografie e copertine, cartoni e “pasticci” scanditi da 1, 2, 3, 4, accompagnano il visitatore, lungo la vita di questo grande artista.
Tàpies diventò celebre in un momento in cui l’arte, anche non figurativa, era stata cancellata dalla Transavanguardia, presentandosi non da gestuale e offrendo una rappresentazione diretta della realtà, con un linguaggio denso e primordiale, non mediato ma fatto di segni-base. Una polmonite lo colpì durante la guerra civile spagnola e, da lì in poi, il movimento della sua mano non cessa. Il continuum della sua necessità di produrre è visibile su ogni parete della Galleria Gracis, lo sguardo, ovunque si posa, si perde nei sentieri di Tàpies.
Il suo lavoro non è la fine dell’Informale, come si suole pensare ma indica la strada all’Azimuth manzoniano. Non è nemmeno un simbolista, trattando straordinariamente l’opera come oggetto già dagli anni ’50, anticipando i realisti. Il graffito graffiato – inteso all’antica, come simbolo primordiale di esistenza e passaggio, di pensiero, creazione e autodeterminazione dell’uomo – è presente nella maggioranza dei lavori: andando a livellare i propri “muri”, ogni strato rappresenta una scoperta e lascia un vuoto per una possibile aggiunta. Una Pompei eterna, dove qualunque murale rivela la sua storia attraverso calligrafie antiche ma vicinissime, rendendo quasi impossibile tracciare una distinzione tra passato e presente.
Simboli come la croce e l’utilizzo frequente della numerologia “alla paleolitica”, sempre presenti nell’iconografia dell’artista, sono chiavi di lettura per un’interpretazione non necessaria, un accompagnamento descrittivo all’opera già di per sé fruibile e universale.Il quadro in Tàpies diventa finalmente oggetto, ritorna brevemente monocromo, manufatto interamente man-made. Il suo discorso si incentra attorno a parole come corpo, porta, muro e la pittura lo rende demiurgo della materia.
La sua personalissima interpretazione del modernismo catalano attraverso l’esoterismo e il materico (via Gaudi), estrapola il secondo dalla sua fonte iniziale e lo trasporta in un non luogo: «Il tuo stesso gioco era iniziato per noia; non era proprio una protesta contro lo stato di cose della città, il coprifuoco, il divieto di affiggere manifesti o scritte sui muri. Ti divertiva semplicemente fare schizzi con i gessetti colorati (non ti piaceva il termine graffiti…)», scriveva Julio Cortazar in “Graffiti”.
Così come nei suoi vicini Alberto Burri e Lucio Fontana, l’oggetto entra in un luogo e lascia una traccia di magicismo come impronta finale (visibile ad esempio nelle litografie per Julio Cortazar) ma rifiuta fermamente qualsiasi tipo di ispirazione. Parlando del suo atteggiamento attorno alla questione infatti affermava che «All’inizio lo scopo non è sempre chiaro: il cammino si forma sotto i passi».
L’urlo di Tàpies, spesso associato al dolore, alla guerra e alla politica, è sì dissidente ma, a differenza degli altri informali, non urla mai più forte, mantenendo la sua eleganza. La sua voce nella Spagna soffocata dal franchismo si esprime tramite la poesia, con densità, con le mani sporche nella materia. Apprezzava l’arte e la filosofia orientale che, come il suo lavoro, confondono il confine tra materia e spirito, tra uomo e natura.
Marsilio Arte ha curato, in occasione della mostra, un catalogo contenente un testo del curatore, testi dall’antologia del 1985 parallela all’esibizione milanese e alcuni scritti inediti dell’artista. Tàpies è enigma silenzioso e dimostrazione che le tracce sulla sabbia, sì, restano, e che la materia ha una memoria: la memoria di tutti noi.
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