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All’HangarBicocca di Milano Saodat Ismailova: la storia personale e collettiva dell’Uzbekistan
Mostre
«I miei antenati ti conoscono, non gli devo parlare di te. E io conosco i miei antenati, e loro conoscono me. Siamo responsabili delle generazioni che verranno dopo di noi»
Saodat Ismailova
La storia che racconta l’artista uzbeka Saodat Ismailova (Tashkent, 1981) in A Seed Under Our Tongue in Hangar Bicocca a Milano, sua prima antologica in Italia, è innanzitutto quella del suo paese, la cui identità nazionale, politica ed emotiva è stata violentemente trasformata dopo le riforme sovietiche. Curata da Roberta Tenconi, la mostra espone dodici lavori e nuove produzioni, tra film a più canali, sculture e installazioni site-specific, in un layout spaziale pensato per il progetto. Ismailova costruisce un racconto emotivo di memorie vissute a partire dal trauma di un popolo, e narra di antiche leggende e mitologie che rischiano l’oblio, in una costellazione di lavori interconnessi che documentano un sapere attraverso la storia dei paesaggi naturali dell’Asia Centrale, luoghi sacri teatri di rituali ancestrali.
L’intero lavoro di Saodat è un dispositivo di trasmissione e consapevolezza: «Siamo responsabili delle nuove generazioni, dobbiamo prenderci cura delle tradizioni, della famiglia, del luogo che ci accoglie», come ci racconta. Dopo il 1985, l’allora presidente dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche Mikhail Gorbaciov avvia la Perestrojka, una serie di riforme politico-economiche per promuovere il sistema democratico sovietico in vari territori. Prima della riforma, l’Uzbekistan viveva sotto il regime centralizzato dell’URSS che ne limitava l’autonomia politica e soffocava l’espressione culturale dei singoli stati, imponendo il russo come lingua ufficiale e marginalizzando la religione islamica. Su decisione di Mosca, ignorando le condizioni locali, avvenne il prosciugamento del lago d’Aral, catastrofe ecologica messa in atto per irrigare le piantagioni di cotone. Le politiche dopo la Perestrojka (la “ristrutturazione”) liberarono l’Uzbekistan, modernizzandone l’economia e aprendo a una maggior libertà d’espressione, favorendo così il rinascimento dell’identità nazionale e di movimenti di indipendenza. Gli uzbeki iniziarono a riscoprire e celebrare la propria storia, lingua e cultura letteraria, e tramite la televisione e il cinema diffusero la cultura pre-sovietica tradizionale, libera da censura. Al crollo dell’Urss nel 1991, viene eletto primo presidente Islam Karimov e si dichiara l’indipedenza del paese. Questo riportò il paese a un progressivo irrigidimento delle libertà artistiche, evidente soprattutto dei media televisivi e cinematografici, strumento di propaganda, censurati per mantenere il controllo sociale (un esempio, il divieto dei film di Antonioni, Bergman, Tarkovskij). Emergono così movimenti culturali di resistenza e gruppi di registi underground segreti perché “potenzialmente destabilizzanti per il regime”.
In questo contesto, Saodad è filmmaker appartenente alla prima generazione uzbeka dell’era post-sovietica e indaga da vent’anni la turbolenta storia del paese (suo padre, direttore cinematografico di documentari e fiction, la introdusse sul set). «Penso che il cinema sia come un contenitore, che trasporta e ricorda tutto», sostiene. La pratica dell’artista, tra i rappresentanti dell’Asia centrale alla Biennale di Venezia del 2013 e parte del progetto Nebula per Fondazione in Between Art and Film di Venezia quest’anno, intreccia cinema, suono e arti, attingendo alla tradizione del suo paese, artigianato e rituali ancestrali, archivi di ricordi personali e le sedimentazioni di migrazioni con i loro retaggi coloniali, per contrastare la scomparsa della memoria. Cresciuta durante la Perestroika, racconta della confusione ideologica e del “vuoto culturale” percepiti nella sua infanzia, che ora traduce e analizza nei suoi film. Dobbiamo prenderci cura della famiglia e delle tradizioni, degli ecosistemi e dell’habitat che, con le sue parole, «non è solo nostro, che non è solo per noi».
In A Seed Under Our Tongue, sono esposti nuovi lavori commissionati da Pirelli: dodici opere, sei film e sette sculture, in uno spazio costruito in collaborazione con lo studio di architettura Grace di Milano, la cui struttura riprende la forma ascendente di una montagna, lente di lettura di tutta l’esposizione, e la ciclicità della natura: «Il mio lavoro, e la montagna e l’acqua hanno qualcosa in comune: l’essere trasformativi». Il layout e le forme allestitive riprendono gli elementi della natura, l’acqua e la montagna: la silhouette del monte Sulaiman-Too è ricamata sulla tenda a inizio percorso ed è ripresa nelle forme delle sedute, poste al centro dello spazio davanti agli schermi, ricavate dal rilievo orografico del monte. Tutto è connesso e intrecciato, ricreando matericamente la tangibile aura mistica e meditativa celata dietro le antiche tradizioni ed eredità spirituali.
La mostra, immersione in un senso di perdita malinconico, evoca la responsabilità di ricordare il sacro e la famiglia e trasmettere la cultura di padri in figli. Il lavoro di Saodat, che si espande in un vasto lasso di tempo, è capace di un livello di astrazione poetica e metaforica quasi mistica, teso alla comprensione del trauma del suo popolo e di cosa è andato perduto. Il titolo riprende il mito tradizionale del medio oriente di un piccolo seme che viene custodito sotto la lingua e passato da una persona all’altra, da una generazione all’altra, metafora della trasmissione dell’eredità culturale orale, la cura e della responsabilità verso la saggezza antica. Un antico detto dell’asia centrale recita: «Siamo responsabili delle sette generazioni che ci hanno preceduto e delle sette che verranno dopo di noi». Esposto in vetrina, il piccolo seme d’oro di Amanat e i calchi in resina di una grotta The Mountain Our Bodies Emptied.
All’ingresso, superata la tenda, siamo accolti dall’elemento acqua: Stains of Oxus (2016) e Arslanbob (2023-24), film su tre grandi installazioni a tre schermi, al centro dello spazio, sono girati rispettivamente sulle rive dell’Amu Darya e nell’area del fiume Syr Darya, nell’attuale Kirghizistan, i due principali fiumi dell’Asia Centrale che un tempo alimentavano l’ormai desolato Lago d’Aral, il cui ecosistema violentato e distrutto si rispecchia negli occhi di bambini e pescatori che ne abitano le sponde. La poetica di Saodat è tutta rivolta alla natura, agli habitat nelle loro delicate dinamiche rese instabili per mano dell’uomo. In Arslanbob, traducibile in “la porta della tigre”, vediamo il rigoglioso noceto e il vicino monte Sulaiman-Too, luogo mistico di pratiche pre-islamiche, connesso metaforicamente con A Guide (2024), scultura in vetro di ossa umane e zampe di tigre.
Quali le conseguenze dello sfruttamento distruttivo di un ecosistema sulle tradizioni di un popolo? The Haunted del 2007 racconta l’estinzione della tigre di Turan, specie estinta in epoca sovietica e per questo divenuta archetipo di protezione di ciò che scompare, molto vivo nella memoria del popolo. Come Saodat racconta, la tigre, anche quando assente, rappresenta la resistenza e al tempo stesso si tramuta in mitologia (“quell’animale che va, che viene, è vivo?”) che si tramanda da generazioni, divenendo una collezione dei ricordi di un popolo che ha perduto il senso di sè stesso.
Ogni film è un intreccio di ricordi, trasposizioni visive di un sentimento malinconico antico, stratificato e sentimentale. Sulla memoria e la tradizione, i lavori 18,000 Worlds, film basato sull’archivio di ricordi intorno ai “18mila mondi possibili presenti nell’universo”, filosofia insegnatagli dalla nonna, e Chillahona del 2022, installazione video a tre canali affiancata a un grande tessuto ricamato (ricamo “cosmologico” uzbeko noto come falak). Su due schermi, il film Two Horizons affronta tema della vita eterna e l’immortalità del primo sciamano Qorqut, in parallelo alla storia della stazione spaziale sovietica di Baikonur, da dove Yuri Gagarin orbitò intorno alla terra nel 1961. La grande installazione di quest’anno è As We Fade, una composizione di tessuti che traspone il film The Haunted in materia, un pannello tessuto a mano di seta e velluto da artigiani locali con crini di cavallo, tradizionalmente usato per segnalare le tombe dei santi. Il film è costruito tramite una sequenza di immagini raccontate dalla voce dell’artista. L’urgenza di Ismailova di documentare i sentimenti e le iconografie antiche fa di A Seed Under Our Tongue una mostra complessa e profonda, pensata per la condivisione collettiva e capace di evocare la responsabilità che abbiamo nei confronti della tradizione e la cura del patrimonio culturale umano attraverso il potere dell’arte filmica.