Andy Warhol, Mao Tse Tung, © The Andy Warhol Foundation for the Visual Arts, Inc.
Quando Andy Warhol arrivò a Napoli, nel 1975, su invito del leggendario gallerista Lucio Amelio, la definì la New York italiana, proprio per la sua anima decadente ma vitale. E oggi è ancora Pop-ular l’arte di Andy Warhol? Decisamente sì. E la mostra Triple Elvis, curato da Luca Massimo Barbero e visitabile presso gli spazi museali di Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo a Napoli, ci racconta anche altro. Ci dice anche del lascito di un collezionismo, quello di Luigi e Peppino Agrati, che era fatto di storie dietro le opere. La collezione Agrati, composta da circa 500 opere, fu creata a partire dalla fine degli anni Sessanta da questi due grandi industriali della borghesia lombarda. Alla loro morte, gli eredi decisero di donare la raccolta a Intesa Sanpaolo e oggi è una delle più importanti raccolte d’arte del secondo Novecento, un po’ come sfogliare un manuale di storia dell’arte, dal vivo. E, questa volta, la pagina si è fermata sul Re della Factory.
Nella sede napoletana di Gallerie d’Italia, l’esposizione rende giustizia all’arte della ripetizione, quella della stampa in serigrafia come testimonia indelebilmente la celebre serie di Marilyn, il fotogramma di un’epoca. Un ritratto in technicolor che assume i toni psichedelici di uno dei personaggi più misteriosi del cinema hollywoodiano. La ripetizione del suo volto, tratto da una fotografia di Gene Korman per la promozione di Niagara e ripubblicato da tutti i quotidiani internazionali all’indomani della sua morte, diventa un modo per imprimere nelle nostri menti il suo ricordo, quello di una giovane donna che è stata una stella del cinema ma che nella vita privata era una donna dalle tante sfumature e meno patinate.
E che dire di una delle personalità più controverse del novecento, il Grande Timoniere della rivoluzione comunista cinese, Mao Tse-Tung, che sembra ridere di noi, persino al di là del tempo. Davanti a lui, la serie Electric Chairs, sulle sedie elettriche realizzate nel 1971, nell’ambito di un acceso dibattito sulla pena di morte. Ma forse l’opera più contemporanea e in qualche modo meno pop di Warhol è quella dedicata a Elvis Presley che dà il titolo alla mostra, Triple Elvis, del 1963, anno in cui l’artista, per la prima volta, lavorava sulla ripetizione dell’immagine in occasione dell’esposizione dedicata agli Elvis Paintings alla Ferus Gallery di Los Angeles. L’opera, tratta da una campagna pubblicitaria del film Flaming Star, è appartenuta a Bob Dylan che, dopo aver provato ad avere uno sconto, la acquistò a pieno prezzo, per poi giocarci a freccette.
«Credo che tutti i quadri debbano avere le stesse dimensioni e gli stessi colori, in modo che siano intercambiabili, e nessuno pensi di avere un quadro migliore o peggiore. E se uno è un capolavoro, lo sono tutti. E poi anche se il soggetto è diverso si dipinge sempre lo stesso quadro», diceva Warhol, una frase che si legge su una delle pareti della sala.
Sebbene questi personaggi siano eterni, quando venne a Napoli trovò anche un altro simbolo da ritrarre: il Vesuvio. Del celebre Vesuvius, protagonista durante la mostra al Museo di Capodimonte nel 1985, ne sono esposte due delle 18 edizioni, ispirate da una cartolina, in cui il vulcano è colto nell’attimo della sua eruzione, quasi il negativo l’uno dell’altro.
E infine c’è Andy che, in quelle tre foto del 1973 in cui sfugge al nostro sguardo fino a sbiadire, sembra diventare un Triple Andy, un’icona tripartita, che sfida ogni limite di tempo e di rappresentazione.
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