Il gioco, il coinvolgimento, l’estro, i colori vivaci, ma anche le difficoltà dell’estrinsecazione femminile nella comunità nigeriana e della lotta lotta contro le disuguaglianze e i pregiudizi: è ancora possibile pensare a un’altra vita Ayobola Kekere-Ekun?
Domenico De Chirico, nel testo che accompagna la mostra – che sarà visitabile a Milano da C+N Gallery CANEPANERI fino al prossimo 7 gennaio – scrive della possibilità che Kekere-Ekun abbia scelto «se stessa come modello di riferimento, all’interno di un processo di analisi autobiografica fatto di confessioni e interrogativi, senza mai distaccarsi dal contesto di cui fa parte, respirandolo» e cita Frida Kahlo per spiegare il suo tentativo di presa di coscienza della dimensione del corpo e conseguentemente dell’ immagine, in aggiunta a quella del volere della mente: «dal momento che i miei soggetti sono stati sempre le mie sensazioni, i miei stati mentali e le reazioni profonde che la vita è andata producendo in me, ho di frequente oggettivato tutto questo in immagini di me stessa, che erano la cosa più sincera che io potessi fare per esprimere ciò che sentivo dentro e fuori di me».
Personaggi e situazioni proprie della quotidianità di Ayobola Kekere-Ekun abitano lo spazio espositivo, prendendo forma su tele di piccole e medio-grandi dimensioni, attraverso la tecnica del quilling, un metodo di lavorazione della carta declinato in termini di processo creativo che consiste nell’utilizzo di strisce di carta arrotolate, poi modellate e infine incollate sulla tela insieme a inserti di tessuti e colore. Nuove e sorprendenti, queste figure solo in apparenza ammiccano alla cultura contemporanea del selfie: dai loro occhi grandi passa il nostro bisogno di dare un nome, di riconoscere e di riconoscerci. Nella maniera più delicata possibile, si sprigiona il desiderio di affermarsi di un’altra vita. Poeticamente speriamo che sia Kekere-Ekun a dirci che si, è possibile, e al contempo lei stessa cerca la medesima possibilità in noi.
La percezione di sé, l’autodeterminazione, il voyeurismo, l’evasione e il processo autoritario tipico della propaganda sono tutti qui, di fronte ai nostri occhi, nei colori ora forti ora pastello – abbinati con rara maestria – nelle forme di una figura, di una maschera, di un unicorno. Infantile, rimosso, remoto: tutto ciò che appartiene alla memoria, insieme autobiografica e collettiva, emerge come in una favola. A chi, del resto, da bambino, non è mai capitato di immaginarsi eroe di una storia immaginata tra sé e sé con i propri giochi? Gli oggetti che figurativamente appaiono sulle tele di Kekere-Ekun fungono da mediatori tra sé e il mondo, e pur che apparentemente sembrino esistere per altri motivi, hanno un preciso scopo sociale e antropologico: ovvero quello di essere mezzi di significazione, segni sparsi e veri e propri linguaggi.
In Another Life, Kekere-Ekun porta con sé alcuni di questi mezzi. L’ontologica questione del doppio, per esempio, (nella serie Split) vivificando la teoria di Jean Luc Nancy: «Ogni volta è un gesto del corpo e del pittore che fa apparire l’immagine, cioè la presenza vera di quell’assente che si proietta verso se stesso ritornando a sé per offrirsi come spettacolo, gioco di tratti o di macchie, disposizione di ciò che è effettivamente incorporato nel corpo che dipinge». Ma anche, e soprattutto, la figura materna, che passa attraverso il trauma della perdita (Perhaps there is a world where we are happy I-II) e culmina nel più dolce degli abbracci (Portrait of another life), quello che ancora e sempre renderà possibile (un’altra) vita.
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