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Aperta la mostra di Anselm Kiefer da Lia Rumma a Napoli, ispirata alle montagne di Segantini
Mostre
«Che altro è l’arte, l’arte bella, vera, elevata, se non l’immagine fotografica, il misuratore che segna il grado di perfezione dell’anima umana?», “Così penso e sento la pittura”, 1891, in “Giovanni Segantini – lettere e scritti sull’arte”. Quando si pensa a Segantini, si è portati al richiamo errante e solitario delle valli Engandine, in Svizzera, un simbolismo carico di riferimenti alla natura e alla figura materna. Ma, forse, quel che ha voluto richiamare l’artista tedesco Anselm Kiefer (1945) per la mostra nella sede napoletana della Galleria Lia Rumma, che porta nel titolo le ultime parole del pittore simbolista e divisionista – “Voglio vedere le mie montagne” – è l’eco di quel periodo di riscoperta del proprio misticismo, quando si era ritirato nel piccolo villaggio di Maloja e poi in Val Bregaglia dove realizzò il suo più ambizioso lavoro: il Trittico della Natura (o delle Alpi).
Sebbene, per Kiefer, il titolo sia più un’allusione che una spiegazione, come ha detto lui stesso, ispirò nel 1971 anche Beuys, che realizzò per il Van Abbemuseum di Eindhoven un’installazione con oggetti personali mobili su lastre di rame. La galleria Lia Rumma di Napoli sembra qui allestita in maniera scenografica, come a voler creare delle grandi finestre immaginarie, in modo da far sentire il visitatore come se fosse davvero su una vetta, ma ne potesse esplorare di nuove.
Le sue opere sono spesso ispirate a versi di poeti amati, a mitologie e leggende di ogni cultura. Nelle esposizioni napoletane immediatamente precedenti, “Walther von der Vogelweide für Lia” nel 2013 e poi nel 2018 con “Fugit Amor”, l’artista alchimista aveva tratto ispirazione da suggestioni letterarie e artistiche affini, come quelle delle figure di Walter von der Vogelweide e Rodin. Questo perché i suoi paesaggi sono la trama di un racconto corale, che attinge a un tempo immemorabile ma avvolgente. Un sentimento apolide che invade l’animo di chi si trova davanti le sue opere, spesso connotate da una verve materica vibrante, che fa presagire la sua complessità spirituale. «L’arte è come un percorso sulla cresta di una montagna, si può cadere a ogni istante da una parte o dall’altra», aggiunge l’artista, facendoci intravedere l’abisso di un mondo tanto intimo quanto precario.
Tra le sette opere in mostra, Die Windsbraut (La sposa del vento), sembra dirci proprio questo. Al centro dello schema compositivo, che ricorda quello del Campo di grano con volo di Corvi di Van Gogh, si vede una baracca in mezzo a un paesaggio arido spazzato dal vento, sormontata da una nuvola che riprende la linearità ondeggiante delle montagne sullo sfondo. Il titolo riprende un quadro famoso del 1928, La sposa del vento di Oskar Kokoschka, ispiratore, tra i tanti, de l’Abbraccio di Schiele, in cui è raffigurato, l’abbraccio con l’amata, Alma Mahler, forse proprio dopo un viaggio a Napoli, nel tentativo di difendersi da una sopraggiunta quanto violenta tempesta.
Il sentimento umano che anima queste opere si scontra con la ruvidità dei materiali, negli squarci che le viti metalliche aprono senza lederli, andando a intaccare l’invulnerabilità di qualsivoglia natura. I colori, cupi, si amalgamano con quelli eterei, quasi a voler annunciare la quiete dopo la tempesta.
Kiefer attua una trasfigurazione degli elementi pittorici in racconto, una trasmissione sensibile dell’esperienza del singolo individuo, della realtà che lo circonda. La frase di Segantini riecheggia come un mantra, come un ultima boccata d’aria pura sulle vette dell’animo umano.
Tutte le meraviglie che ho letto qui sopra mi hanno impressionato per la mia grande ignoranza di tutto o questo. Ne sono rimasto commosso e colpevole di tutte quelle cose che non ho fatto. Grazie per avermele fatte assaggiare solo con una piccola punta della lingua.