Qualche settimana fa, stavo facendo un po’ il check su Instagram di quello che stava accadendo in giro e mi sono imbattuto sul una copertina di un magazine con Antonio Guiotto. Quando l’ho vista ho pensato che finalmente un artista che non si può definire di certo commerciale, avesse ricevuto attenzioni serie da parte di una rivista. Quello che non sapevo è che quella copertina di quel magazine così di nicchia (poi ho scoperto che in realtà non esiste il magazine ma che è tutto frutto della mente del Guiotto), è una delle opere della sua mostra personale, presso la Galleria Marina Bastianello, a Mestre, curata da Daniele Capra.
Conosco Daniele da un po’ e così gli scrivo e ci incontriamo per una visita alla mostra con Marina orgogliosa del progetto. La personale di Guiotto è qualcosa che riguarda tutti nel campo delle arti italiane, ovvero quante volte abbiamo dovuto fare secondi, terzi lavori, per poter mantenere viva la nostra passione, quello in cui credevamo e crediamo fortemente? Per molti di voi che state leggendo, sono sicuro che la risposta sarà: «Tante volte».
Antonio Guiotto ha una storia artistica forte, ha partecipato a mostre collettive di grande richiamo e a progetti personali e collettivi di alto e medio spessore, ha esposto dove era necessario per il suo percorso e anche in luoghi dove non lo era. La sua storia è molto simile a quella di molti di noi della sua stessa annata ma, proprio come noi, anche lui ha dovuto mantenersi facendo altro e non solo l’artista. E proprio da qui che nasce il pensiero, poi diventato idea e dialogo con Daniele Capra, per la sua personale. Come mi raccontava proprio il curatore, durante un loro incontro è uscita fuori la frase molto veneziana: «(…) e chi sono io, l’ultimo degli stronzi?», come per dire, cos’ho che non va artisticamente che non posso vivere di quello che faccio e che amo fare?
Sono forse l’ultimo? Domande legittime, che prendono forme diverse nelle opere in mostra negli spazi della sede della galleria veneziana, dove abbiamo a che fare con oggetti da muratore, da falegname e da corriere, in cui a ogni opera viene assegnata, con la moneta, la paga oraria dell’artista quando svolgeva quei lavori, in un rimando continuo al lavoro precario che aiuta il lavoro che si vuole davvero fare a continuare.
Insieme poi ci sono i disegni preparatori delle varie opere e una fotografia della biblioteca dell’artista, con al primo piano tutti i cataloghi in cui la sua opera compare, nel secondo piano quaderni e diari di appunti di viaggio o disegni delle opere che ha creato negli anni, un’opera che, di fatto, identifica la solida storia artistica.
Ma l’ultimo degli stronzi è anche un immenso progetto di comunicazione, dove l’immagine dell’artista viene inserita ovunque, dai pannelli pubblicitari in città, alle copertine delle riviste (esistenti e non) fino ad arrivare all’opera in galleria che rappresenta il Guiotto, con delle aggiunte in pennarello, come si usa spesso fare nella comunità street sulle pubblicità di tendenza.
La mostra è davvero intensa, tocca un argomento importante con domande forti e cerca di analizzare, dal punta di vista dell’artista, la difficoltà continua nel poter mandare avanti la propria ricerca, senza l’ausilio di un istituzione, galleria o Ministero che favoreggi la crescita dell’arte e quindi della cultura.
Guiotto la tocca piano ma neanche troppo poco e l’effetto che ha creato è un grande riverbero in un ambiente, come quello italiano, dove spesso si fa orecchie da mercante, dove si pensa solo a guadagnare ma quasi mai a investire.
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