Mettere piede nella Loggia degli Abati di Palazzo Ducale e ritrovarsi faccia a faccia con Luca Cambiaso, Venere benda gli occhi a Cupido il soggetto dell’opera. Un buon inizio, qualunque cosa possa arrivare dopo. Pure se quella stessa presenza non è chiara, essendo all’apertura di un progetto espositivo dedicato a Franco Maria Ricci (1937-2020), editore, grafico e tante altre cose. Un uomo di cultura a trecentosessanta (è più) gradi, nato a Parma, ma con origini (nobili) genovesi. Premesso che solo seguendo queste righe – o visitando la mostra, che ovvietà – il mistero-Cambiaso vi sarà svelato, per ora prendiamo la presenza del pittore ligure come un chiaro segno: comunque vada, L’Opera al Nero – a cura di Pietro Mercogliano – sarà un successo.
E di successo ne ha avuto Ricci, a partire dal 1965. Anno in cui pubblica la ristampa anastatica del Manuale Tipografico di Giovanni Battista Bodoni. Un mito (vivo tra noi aggiungiamo: mai utilizzato l’elegante carattere “Bodoni” per scrivere un testo? Eccovi chi l’ha ideato nel 1798) che Ricci ha portato con sé per tutta la sua attività, ispirandosi all’eleganza delle sue edizioni. Un eleganza mista al savoir faire di Ricci, inappuntabile mentre lo si vede presentare la sua versione dell’Orazio Dominica bodoniana ad una raffinatissima Jacqueline Kennedy. Guarda caso vestita in nero, tonalità che, parola di Ricci, è «Il colore della vita, la somma di tutti i colori». Nero che, abbinato all’oro, è una costante delle pubblicazioni visibili in mostra, inclusa una monografia su Domenico Gnoli – con testo di Vittorio Sgarbi per la collana I segni dell’uomo. Ça va sans dire che se il nero è vita secondo Ricci, il bianco potrà solo rappresentare la morte, indicando dei colori «La loro elisione e la loro scomparsa».
Bello trovare l’edizione dell’Orazio Dominica firmata da Papa Paolo VI (con un tratto quasi incerto, molto “umano” se ci passate il termine), così come non aver affidato a terzi l’onere di accompagnarci nel mondo di Ricci, lasciando a testi autografi il racconto di ogni sezione-mostra. Brutto, anzi una caduta di stile non degna di Ricci, inserire un’incisione di Francesco Rosaspina – ad occhio un’acquaforte e acquatinta – tratta da L’apoteosi di Bodoni “spacciandola” per il disegno originale di Giuseppe Bossi. E no, quello che vedo in mostra deve sempre corrispondere alla sua descrizione. Pertanto viene da chiedersi: assodata la sostituzione in corso d’opera del pezzo, cosa che può accadere quando si allestisce una mostra, non si poteva contestualmente modificarne la descrizione? Piuttosto scritta a mano, sarà poco bella a vedersi, ma almeno corretta.
Altra sezione, altro capitolo, altra storia. «Raramente la vita è un percorso rettilineo, risoluto. Di solito comporta biforcazioni ed esitazioni», così disse un Ricci da cui abbiamo solo da imparare. E così, anno 2015, apre le porte nella campagna parmense il Labirinto della Masone. Un luogo unico, nato da un progetto ambizioso, senza mezzi termini. Qui ben raccontato tra parole, prospetti, sezioni e un video, con riprese aeree che mettono in risalto un’architettura d’impronta neo-classicista circondata da filari di oltre 200.000 bambù. Uscendo dal labirinto – uscita non proprio metaforica: l’allestimento non si è fatto mancare delle graziose canne di bambù stilizzate e stampate – si va dritti verso l’incontro storico-titanico con Jorge Luis Borges (o arriva prima Borges e poi il Labirinto, fate vobis), agli inizi degli anni ’70 per la collana La Biblioteca di Babele.
Finché, nel capitolo successivo di una vita che fin qui è già un romanzo a sé, Ricci è grafico e designer. Siamo tra gli anni ’60-’70. E qui parte un “momento riflessione”: il nostro Franco Maria in un certo senso è stato l’incarnazione umana di quello che gli anglofoni chiamano killer application. L’uomo-icona che non ha solo saputo distinguersi, ma dare un tratto distintivo a qualunque settore si sia dedicato. È una questione di testa, veicolata attraverso perle di saggezza che prontamente ci siamo andati a segnare: «La grafica è un fatto culturale» o «Per fare un marchio non bisogna sapere tanto di design. È molto più importante aver letto i grandi classici». Una linea di pensiero che ha dato origine a marchi iconici come Smeg, Poste Italiane e Napoleon (quello delle celebri “gocce”, roba d’altri tempi). Ciò che finora abbiamo omesso è come il nostro sia partito con in tasca una laurea in geologia, segno che, per essere culturalmente sul pezzo, buona cosa è diversificare e tesaurizzare i propri interessi. Ciò che invece vorremmo continuare ad omettere è l’istallazione, in cui alcuni marchi creati da Ricci si mescolano a quattro suoi busti colorati, ma dovere di cronaca c’impone di ricordare che il confine tra pop e kitsch è sempre molto labile. A volte pure troppo.
Il 1981 è l’anno di un nuovo caposaldo su carta, il Codex Seraphihianus, enciclopedia sopra le righe illustrata da Luigi Serafini. Altro pezzo di heritage culturale sfoderato dal Ricci editore, nonché altro esempio di come quello stesso heritage – da Lucrezio e Diderot e D’Alembert – sia nulla senza una visione precisamente fuori dagli schemi. E tra parole indecifrabili, coadiuvate da immagini ancor di più fantasticamente incomprensibili, non resta che farsene una ragione: l’enciclopedia secondo il metodo Ricci è quell’oggetto che non dà delle risposte, ma invita a farti delle domande.
Desiderio tangibile di questo progetto espositivo è mettere in luce ciò che Ricci chiama «Parallelismi tra scelte editoriali e quelle di collezionista», ricorrendo ad un’esperienza immersiva tanto basica, quanto funzionale: un Busto di Paride di Lorenzo Bartolini al centro, sullo sfondo una riproduzione 1:1 (più o meno) della Sala di Napoleone (dove ritroviamo lo stesso busto di Bartolini, sempre al centro), tutt’intorno pezzi della collezione Ricci, tra cui una Testa di tigre olio su faesite di Antonio Ligabue. Ambientazione perfetta, soprattutto perché in essa è custodita (finalmente) la risposta al mistero del Cambiaso iniziale: quell’opera è parte della collezione Ricci presso il Labirinto della Masone. Collezione il cui allestimento, secondo le parole dello stesso Franco Maria, «Non è quello casuale di una quadreria, né quello scientifico di un museo; procede per associazioni d’idee e di forme». Liberamente affascinata e affascinante, in pieno stile Ricci.
E se proprio dobbiamo parlare di finale, quello di una mostra dedicata all’editore non può che essere in grande stile: una sala cinema, per un’immersione dinamica tra le pagine di FMR magazine, dal 1982 apoteosi della cultura italica nel mondo. Certo, essendo mezza buia per apprezzare le copertine alle pareti si deve prendere il momento (di luce) giusto, ma è comunque più che possibile permettersi di spaziare in un nero che dà risalto a luoghi come la Camera Picta di Andrea Mantegna, artisti come Gaudenzio Ferrari e più in generale alla visione culturale genial-allargata di Ricci. Uno che se ne intendeva, tal Federico Fellini, la definì «La perla nera dell’editoria». E non era solo merito del colore.
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