«Niente è più inabitabile di un posto in cui siamo stati felici»: da questa citazione tratta da La spiaggia di Cesare Pavese prende le mosse Architetture inabitabili, percorso suggestivo e al contempo straniante, che invita al confronto con otto non – luoghi della penisola italiana.
La riflessione sulla massima pavesiana porta i due curatori Chiara Sbarigia e Dario della Lana, a elaborare una mostra che spinga il pubblico a ripensarsi spettatore passivo di un’architettura, come riporta il titolo, “inabitabile”, ossia privata della sua stessa funzione ontologica. Le strutture (il campanile di Curon nel lago di Resia a Curon Venosta, il memoriale Brion di Carlo Scarpa a San Vito di Altivole, la Torre Branca di Milano, il Lingotto di Torino, gli Ex Seccatoi del Tabacco di Città di Castello, il Gazometro di Roma, il Parco dei Palmenti di Pietragalla e il Grande Cretto di Burri a Gibellina) designate per proiettare lo spettatore in scenari dai contorni a volte distopici, vengono presentate con svariati medium, che vanno dai reperti di archivio al supporto video, insieme all’esposizione di campagne fotografiche inedite realizzate da Silvia Camporesi e Francesco Iodice.
La committenza a due fotografi contemporanei di scatti inediti rende in maniera efficace la stratificazione di testimonianze visive che nel tempo hanno contribuito a plasmare la permanenza di quei luoghi nell’immaginario collettivo, contribuendo a rendere il progetto espositivo stesso archivio contemporaneo degli spazi che propone. Come dichiara la co-curatrice Chiara Sbarigia «La mostra nasce dall’unione tra la componente letteraria e la memoria personale, con l’idea di mettere insieme dei pezzi che riguardano le fotografie dell’archivio Luce e le nuove committenze».
Il risultato è una narrazione convincente sulla relazione dell’uomo con il territorio, depositario, attraverso le persistenze architettoniche, di stagioni e valori passati, di cui tutti gli attori intervenuti nella realizzazione del progetto, dagli artisti agli scrittori, si sono fatti interpreti attraverso le proprie esperienze. A rendere particolarmente efficace la costruzione del concept della mostra è la scelta della location: la Centrale Montemartini, ex centrale termoelettrica dismessa una volta divenuta tecnologicamente obsoleta, è essa stessa un luogo ibrido che ha trovato nella sua conversione attuale in forma museale una nuova ragione d’essere e di interazione con il territorio.
L’immaginario culturale italiano perduto e testimoniato dalle architetture analizzate in mostra è ben evidente, ad esempio, nella Torre Branca, costruita negli anni ’30 su progetto di Giò Ponti, volta a celebrare la spinta propulsiva verso l’innovazione di cui era protagonista Milano in quegli anni. La struttura ferrea, dalla cui sommità si poteva apprezzare la visione inedita del paesaggio industriale lombardo, oggi è ridotta a simulacro di un’era ormai tramontata, le cui immagini di Iodice tentano di restituire l’essenza metafisica del suo assetto ingegneristico, attualmente privato delle sue sovrastrutture simboliche.
Il progetto restituisce una riflessione sul concetto di “icona” e di come persino il luogo più inabitabile possa regalare un’istantanea sul senso del vivere, pur nella sua stessa negazione. Partendo dall’assunto che non tutto ciò che viene costruito, come riflette Marco Belpoliti nel suo intervento sul catalogo della mostra edito da Marsilio, è destinato ad essere abitato, i luoghi scelti per tracciare questa parabola umana del vissuto comunicano come nuove forme di presenza e interazione si stabiliscano tra questi e l’umano, pur non contemplando la dimensione “dimorativa” e ciò che rappresenta nella vulgata.
«Costruire e abitare non sono affatto la stessa cosa; un’architettura che non ha uno spazio di vivibilità è una non architettura dal punto di vista ontologico. Diventa allora qualcos’altro, un marcatore territoriale o un monumento, passando, come avrebbe detto Bruno Zevi, dall’essere architettura all’essere urbanistica», sostiene Gianni Biondillo a proposito della sua riflessione sulla Torre Banca, rendendo noto come in realtà i non – luoghi dell’esposizione permangano in un substrato più profondo del collettivo, che valica la semplice espressione di funzione per cui sono stati concepiti, ma impongano un raffronto serrato con tematiche universali, quali vita, morte e memoria.
Questo è il caso della Tomba Brion, progetto di Carlo Scarpa, che Tiziano Scarpa definisce «demiurgo creatore»: la realizzazione di questo edificio, il cui artefice viene associato al concetto di creazione, evidenzia la correlazione idiosincratica tra il concetto di vita e morte, spiegato dalla funzione primaria dell’ambiente. Al pari di una forza motrice superiore, Scarpa progetta e compone ogni costituente della sua architettura, ripensando da zero ad un luogo di morte che al contempo celebrasse l’atto creativo in potenza.
Le trasformazioni che il tempo opera sul paesaggio antropico sono testimoniate anche dalla serie di immagini e documenti del Parco dei Palmenti di Pietragalla, in provincia di Potenza, composto da spazi una volta adibiti alla produzione del vino da parte della comunità rurale del luogo. Abbandonate in seguito all’affermazione dei sistemi di automazione nell’industria vinicola, cristallizzano un procedimento costruttivo che vedeva l’integrazione della struttura artefatta nel panorama degli ambienti preposti alle attività dell’uomo, i quali sembrano emergere spontaneamente dalla terra da cui sono circondati, preservando in toto il genius loci.
A essere tramandata attraverso le impressioni fotografiche di Silvia Caporesi è un’eredità culturale composta da nomi dimenticati, travolti dall’impetuoso flusso della storia, volti di quella popolazione dedita al mestiere della terra di cui era composta la maggioranza del Belpaese. Impossibilitati a ricostruire quelle anonime identità, apprezziamo il lascito del loro lavoro, spesso tutto ciò in loro possesso. Ciò che più non è torna ad essere in mostra, invitando, come racconta Andrea Consoli, autore del saggio dedicato ai palmenti potentini «a riflettere (…) sul dialogo che noi sempre dobbiamo avere con i morti e sulle tracce che i morti lasciano, perché il paesaggio è quello che ci hanno lasciato coloro che non ci sono più».
Pur essendo proposte architetture alla stregua di fossili residuali di ciò per cui un tempo furono concepite, la mostra si presta anche ad un’acuta riflessione sull’architettura contemporanea e su come questa spesso non sappia operare una sintesi convincente tra forma e funzione; in questa prospettiva Architetture inabitabili propone, come osserva il co-curatore Della Lana, delle rovine contemporanee, il cui obiettivo è interrogare sulla persistenza della memoria individuale e collettiva.
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