16 marzo 2024

Ardian Isufi, ucronia Enver Hoxha: la mostra al Kursaal Santalucia di Bari

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L’artista albanese presenta a Bari una mostra che narra ambizioni e utopie del regime di Hoxha, attraverso un’immaginaria riscrittura spazio-temporale di ex edifici industriali e militari

Ardian Isufi, Disney Metallurgico, 2021 (2015) Courtesy National Gallery of Kosovo.

Ha l’intensità immaginifica della rêverie e insieme la forza eversiva di un sentimento postmoderno il Sogno Metallurgico di Ardian Isufi, la mostra abilmente presentata come il più credibile e verosimile dei paradossi negli spazi liberty del Kursaal Santalucia di Bari. Una personale densa di sollecitazioni e implicazioni che emergono in un progressivo fluire di rimandi storici e culturali, echi artistici rielaborati con soluzioni formali dagli esiti fortemente icastici. Visitare l’esposizione significa addentrarsi in un sincronico itinerario tra epoche, temi e luoghi che l’artista fa convergere verso la sua realtà d’origine (Isufi nasce a Tirana nel 1976) riproponendo da un lato la propria visione del regime dittatoriale di Enver Hoxha, dall’altro facendosi interprete di un sentire collettivo che in parte risente dei retaggi del comunismo albanese, consegnatoci dalla storia come tra i più repressivi e sanguinari. Il percorso della mostra, curata da Gaetano Centrone con la direzione del progetto di Elton Koritari, risulta quasi una macchina del tempo, un dispositivo per consentire al pubblico di assistere a un racconto che non tende a descrivere fatti, vicende e avvenimenti del passato, ma preferisce evocarli per farne proiezione di memorie future.

Finalità restituita da una vasta gamma di codici stilistici e media cui l’artista (insegnante all’Università delle Arti di Tirana) ricorre con assoluta padronanza, rafforzando quella percezione di narrazione metafisica che pervade trittici e polittici delle videoinstallazioni, tecniche miste, elaborazioni digitali e fotografiche ambientate nella Sala Giuseppina. A cominciare da Disney Metallurgico, manifesto visivo di una riflessione analitica e profonda, ma allo stesso tempo visionaria e concettuale. Sugli schermi led wall svettano tre simulacri di un vertiginoso gigantismo in disfacimento: un tempo trionfanti esempi di edilizia industriale, ora ironicamente proposti da Isufi come carcasse di un’utopia ridotta alla favola di un videogame. A circonfondere gli emblematici edifici l’aura vagamente pop del rosa fluo; forse insegna al neon di un sogno capitalista, oppure uno spettacolarizzante riferimento al nastro di Möbius, metafora di evoluzione, cambiamento e rinascita.

Ardian Isufi, Bunker (2024) e Bonbon di cemento (2018 – 2024) Phot Credit Marino Colucci

Ma l’artista va ancora oltre, e nel suo alchemico gioco di trasformazione di senso dei luoghi – e delle rispettive architetture – include anche contesti urbani dall’identità ben definita: in Utero, l’assetto della nevralgica piazza fascista di Tirana viene stravolto da un altro ieratico corpo di fabbrica, che si erge a simbolo di queste mitologie infrante. Il bianco e nero torna a cristallizzare l’immagine, mentre l’assenza di presenza umana e il tempo sospeso riconducono a certe piazze metafisiche e al valore rinascimentale di città ideale, seppur Isufi abbia formulato le sue interpretazioni con presupposti e intenzioni differenti.

Ama definirli “progetti impossibili” e avvalendosi del video ne svela l’anatomia per conferire all’oggetto architettonico una dimensione fisica e corporale, ponendolo quindi sullo stesso piano di un umano; lo spettatore ha così modo di viaggiare all’interno degli stabilimenti, comprendendone la reale struttura e le fasi costruttive. Esattamente quanto accade con La Ciminiera Minareto, altra operazione di transizione di un corpo architettonico ricollocato in uno spazio e in un habitat socio-antropologico per molti versi opposti rispetto a quello originario. Lo spaesamento che qui si genera riguarda soprattutto la compenetrazione tra identità. Il mattone, tra gli elementi caratterizzanti dei palazzi storici di Venezia, viene utilizzato da Isufi per il tessuto murario dell’ex vetreria convertita a moschea, e individua in via Garibaldi il punto della città lagunare in cui trasporla, portando a compimento la sua rifunzionalizzazione dell’edificio.

Ardian Isufi, Bunker (veduta interna), 2024. Photo Credit Marino Colucci

L’aspetto identitario ritorna come questione pregnante, tuttavia affrontato con altri accenti, nella serie La Famiglia e nei Contro-monumenti. In questi ultimi il volto di Hoxha, con sembianze da zombie, non viene del tutto occultato dal tessuto dipinto, ma è di proposito chiaramente riconoscibile attraverso le trasparenze delle velature; a dimostrare l’importanza che l’aspetto materico e materiale ha per l’artista, intenzionato ad esprimere: «Quanto ancora oggi continui ad esercitare la sua utopia pur essendo morto», tiene a chiarire egli stesso. Viene spontaneo a questo punto accostare l’opera all’epocale abbattimento nel 1991 della statua del leader comunista, figura dominante di padre e padrone anche nella gerarchia familiare, i cui componenti sono effigiati su pannelli di alluminio come maschere funebri. I macabri ritratti appaiono privi di una reale fisionomia, sono piuttosto erosi e corrosi, interessati da un processo di putrefazione avvalorato dalle vistose tracce di fango, unico elemento aggettante dell’intera composizione. Al contrario, nel nucleo Senza titolo nel tempo sono le glorie edonistiche del sogno consumistico a delineare l’idea di lusso e benessere capitalista riportati su sfavillanti involucri da packaging.

Ardian Isufi, La Ciminiera Minareto, 2020 Courtesy Shkoder City Art Gallery

Se nella Sala Giuseppina i tubi in acciaio sono il leitmotiv – una sorta di canovaccio in cui si inscrive questo distopico racconto di un’utopia decadente – dove i frequenti impianti industriali fanno da contrappunto alle idilliache scene affrescate da Prayer, nella Sala Cielo al piano superiore primeggia la suggestione dello sconfinamento, suggerita dal poetico incontro di riflessi e superfici specchianti creato dall’intervento di Alfredo Pirri. È da quest’osmosi, tra volta celeste e mare, che sembrano emergere come elementi galleggianti i 28 Bonbon di cemento (realizzati in resina a dispetto del titolo) installati da Isufi per soffermarsi sui concetti di limite e confine rapportati a quello di spazio, sul transitare e sui flussi considerando che sette di essi si muovono per circolare liberamente. Ma farebbero pensare anche a insolite e poco funzionali bitte portuali, alludendo a un opprimente senso di immobilismo tradotto in un’apparente fissità e gravità della materia.

Sempre di resina è il Bunker site-specific al centro della sala. Fedele riproduzione in scala reale di quello ubicato nel villaggio di Lin sovrastante il lago di Ocrida, solo uno delle migliaia di funghi in cemento che durante la fobica tirannia di Hoxha proliferavano in Albania (soprattutto per la sua posizione geografica di avamposto sul mare) per rispondere alla possibile minaccia di un nemico invasore mai sopraggiunto, alimentando una vera e propria sindrome da Deserto dei Tartari. Rispetto all’originale Isufi ne decora tutto l’interno della copertura emisferica con figure di santi, dando l’impressione di trovarsi in una cripta subdialis in pieno stile bizantino. Ulteriore paradosso di cui l’artista si serve per stabilire un doveroso, quanto inevitabile, confronto tra due forme di fede, quella della Chiesa ortodossa e quella del credo comunista, mostrando il profilo dogmatico di certe ideologie politiche.

Ardian Isufi, Senza titolo nel tempo nr.3, 2010 Courtesy dell’artista

Ma la parabola dell’illusione e dell’inganno messa a punto da Isufi insieme ai suoi complici Koritari e Centrone si estende su diversi livelli e orizzonti di senso, toccando l’apice nel container esterno che ospita Il Complotto di Tirana, con tanto di inquietante ma grottesco lupo imbalsamato e camuffato da supereroe. Lo scenario ricreato all’interno evoca con video e lightframe la più grande beffa artistica di portata mediatica che nel 2001 ha inaugurato il nuovo millennio, smascherando il vero volto del sistema artistico contemporaneo. Considerato un attacco, una vendetta o un’operazione performativa attuata in occasione della prima Biennale d’arte di Tirana, resta il fatto che l’Albania fu di nuovo teatro – inconsapevole – di finzioni. Oggi parleremmo più propriamente di fake, convenendo quanto neanche l’arte sia poi estranea, né riesca ad esimersi, da un certo tipo di dinamiche subdole. Gli stessi temi dell’inganno e della finzione, che attraversano e innervano l’intera mostra nella sua complessità, si trascinano inevitabilmente un sentire diffuso di aspettativa e speranza, che proiettano la nostra memoria su uno spaccato di storia e riaprono questioni mai del tutto superate né tantomeno archiviate, parlando allo spettatore di realtà lontane solo in apparenza, ma che di riflesso ci riguardano – e forse ancora ci riguarderanno – estremamente da vicino.

La mostra, promossa dalla Regione Puglia e dalla Fondazione Pino Pascali, sarà visitabile fino al 30 marzo.

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