Nei sogni tutti siamo inconsapevolmente bravi a prendere pezzi di vita vissuta, per rimescolarli in varie situazioni più o meno paradossali, più o meno verosimili. Più o meno alla Argo, progetto che Paolo Bufalini (Roma, 1994) porta a Palazzo Ducale di Genova con la curatela di Sineglossa. Un progetto al quale vi introduciamo definendolo particolarmente “sospeso”, “inafferrabile” nella sua concretezza. Dove l’unica certezza è sentirsi spettatore inconsapevole (sì, alla seconda comparsata è già evidente che l’aggettivo “inconsapevole” sarà protagonista più e più volte di questo pezzo, in tutte le sue declinazioni, più in là capirete perché), pur avendo davanti qualcosa di formalmente indiscutibile come un’istantanea.
Per prima cosa, Argo si compone di nove immagini stampate su carta cotone, incorniciate e disposte con una creatività che “sa di casa”, ovvero col personalismo di chi adotta un proprio gusto estetico per esporre l’album di famiglia. Tre figure totali (il padre, la madre e la sorella dell’artista) per nove ritratti accomunati dal sonno, condizione che Bufalini spiega essere «Subentrata in un secondo momento», definendola come «Uno stato in cui c’è ambiguità tra presenza e assenza». Protagonisti inconsapevoli loro (condizione propria a chiunque sia ritratto tra le braccia di Morfeo), spettatori inconsapevoli noi, pubblico che li osserva scrutandone ogni dettaglio, lasciandosi affascinare da alcune punte di pittoricismo (ad esempio i tocchi di luce tra le onde dei capelli), convinto di trovarsi di fronte a istanti di vita piantati nel realmente accaduto. La cui unica realtà , tuttavia, è l’essere prodotto di un’intelligenza artificiale generativa, alla quale Bufalini ha affidato un archivio d’immagini di famiglia, estraendone delle altre immagini, scrivendo un’altra storia. Sciogliendo la veridicità di una vita vissuta, certificata proprio dagli scatti (tutti fotografiamo per bloccare e ricordare momenti particolari), in altri scatti che non raccontano effettivamente nulla, tanto all’artista, quanto a noi che di suo padre, sua madre o sua sorella non conosciamo nulla in partenza.
Quel nulla con cui si è chiuso il paragrafo soprastante, inteso come “l’incognita” in un presente che ci ha abituato ad avere più certezze che dubbi, è secondo noi proprio il punto focale di Argo: adottare l’intelligenza artificiale, qualcosa di decisamente attuale, per creare un prodotto di sintesi davanti al quale artista e fruitore viaggiano sullo stesso livello, in un confronto alla pari dove l’esposizione intimistica del primo corre sincronicamente con la messa in discussione della percezione di realtà del secondo, generando una sorta di compensazione – o anche scambio – tra componenti. La parte più strettamente scultorea del progetto, l’oro sciolto nell’acido di quelle due ampolle (in una un paio di orecchini, nell’altra un anello), non ne è che un’ulteriore prova: riconoscibile nel giallo, inafferrabile nei fatti e vorticoso come un sogno. Prezioso, come i ricordi.
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