Oltre la straordinarietà della carriera e la grandezza dell’opera, la mostra Arnaldo Pomodoro: il movimento possibile – ora in corso a Milano, da Cortesi Gallery, con la curatela di Alberto Salvadori e la collaborazione della Fondazione Arnaldo Pomodoro – ha il grande merito di consentire, a chi ne fa esperienza, di viaggiare nelle galassie della più sfrenata fantasia.
Alcune opere, che risalgono alla fine degli anni ’50, sono inedite: è la prima volta che le prime sperimentazioni con rame, stagno, piombo e cemento escono dallo studio e concorrono, in maniera straordinaria, a dare un’immagine a 360° di Pomodoro. Il legame con alcuni artisti, Burri per esempio, o con alcune correnti, come l’informale francese, si sente, forte. Sono opere tormentate, che risentono, inevitabilmente e forse anche umanamente, della guerra appena conclusa. E oggi che la guerra in tutte le sue molteplici manifestazioni e gradazioni – militare, commerciale, finanziaria, comunicativa, culturale, etnica, regionale, locale – è tornata prepotentemente a occupare la scena mondiale, quelle ferite e quelle lacerazioni impresse sulla superficie, ci permettono di percepire e afferrare, ancora di più, il nostro tempo.
Potrebbe allora non essere un caso che al primo colpo d’occhio – che si gioca tutto sulle pareti della sala principale della galleria – si incontri in principio l’opera intitolata La macchina del tempo, datata 1958 e realizzata in piombo, rame, zinco e stagno. Questo lavoro, come i vicini – tutti degli stessi anni, tra il 1957 e il 1958 – Mondano e la sua ombra (in piombo, cemento e legno), Apparizione n.2 e Presenza interrotta, sono sintomatici di come Pomodoro, che pur non era un pittore, abbia voluto confrontarsi, sperimentando secondo la propria personalità, con la bidimensionalità. Un paio di anni più tardi, nel 1960, il maestro approda al bronzo ed è il Bassorilievo, dorato e lucidato grazie all’utilizzo nella lega di un’alta percentuale di rame, a marcare il passaggio decisivo non solo in termini materiali: la forma convessa dell’opera che si proietta al di fuori di sé, nello spazio circostante, risolve infatti il confronto con la bidimensione verso una tridimensionalità che emergerà e si concretizzerà definitivamente negli anni a venire.
Come Bassorilievo, che porta i prodromi della scrittura per segni che è diventata, nel tempo, cifra stilistica di Pomodoro, dello stesso anno è anche La Colonna del viaggiatore, lavorata su entrambi i lati attraverso proprio quella scrittura attraverso cui la condizione temporale si dà all’infinito nella sua estensione metastorica. Qualcosa cambia negli anni successivi, ed è ben visibile con Sfera (1975), Colonne, studio (1981) e Lunghe tracce concentriche (1986): le forme geometriche perfette, alcune dalle superfici lisce e specchianti, si rompono e lasciano all’artista la possibilità di scoprirne le fermentazioni interne «misteriose e pure», e il movimento non appartiene più all’opera soltanto ma è anche nostro, oltre che possibile, ed è parte della stessa.
Il percorso espositivo, pensato e costruito come un affascinante viaggio nella carriera di Pomodoro – che è arrivato alla scultura muovendo i suoi primi passi nel mondo dell’oreficeria – offre anche una selezione di gioielli e ornamenti degli anni ’60, accompagnati dai progetti originali, insieme a una serie di libri d’artista e al modello in scala ridotta di un intervento di natura architettonica e paesaggistica mai realizzato ma significativamente molto vicino, da un punto di vista formale, a quelle rotture delle superfici e delle forme che rispondevano, anche, a un bisogno di scoperta altrimenti insoddisfatto (il Progetto per il nuovo cimitero di Urbino, del 1973).
Un fregio, in bronzo e di anni più recenti (2007) – Riva dei mari, studio – e una seconda Colonna del viaggiatore (1960/61), leggermente convessa e di grandissima dimensione – parliamo di un’altezza di 275 cm – conducono al gran finale di Arnaldo Pomodoro: il movimento possibile: due film sperimentali, l’uno girato da Joe Green (Arnaldo Pomodoro makes a sphere) e l’altro realizzato in collaborazione con Francesco Leonetti e Ugo Mulas (Shaping negation). Può capitare di vedere il maestro tra la gente, le case, il verde, le vie di tutti i giorni, ovvero proprio dove per lui era ideale ambientare le sue opere, in un confronto con il tessuto urbano e con il paesaggio.
Ci sono persino dei frame in cui Pomodoro dopo essersi pettinato e specchiato, sorride. E può essere in quel preciso istante che tutti i viaggi nelle galassie della più sfrenata fantasia si rendono evidenti. È dichiaratamente umano, troppo umano, sfidare noi stessi nel tentativo di riconoscere, opera dopo opera, una traccia o un significato che possa avvicinare la nostra memoria al genio dell’artista. Sua è l’affermazione secondo cui «l’opera diventa un patrimonio di tutti e acquista una valenza testimoniale del proprio tempo: riesce a improntare di sé un contesto e lo arricchisce di ulteriori stratificazioni di memoria». E la memoria che cos’è, del resto, se non una storia che raccontiamo o scriviamo e come tale modella il mondo che ci circonda?
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