Le sale monumentali di Palazzo Rospigliosi, edificio dalla lunghissima storia che svetta su Zagarolo, si aprono all’arte contemporanea: aprirà il 6 maggio “RANE”, ampia mostra incentrata sulla ricerca di Mario Ricci, pittore, scultore, performer. Visitabile fino al 6 giugno, l’esposizione è scandita da sei sezioni o ambienti, ognuno dedicato ad aspetti precisi dell’arte di Ricci ma anche tutti uniti da un racconto omogeneo, che procede in armonia dialettica con le pitture parietale del peculiare contesto, il cui nucleo originario era un castello dei principi Colonna, risalente almeno al 1100.
Tanti gli avvenimenti che hanno attraversato il Palazzo, dalla guerra allo studio, nel 1439 subì gravissimi danni dalle truppe al comando del noto condottiero Giovanni Maria Vitelleschi, mentre nel 1591 qui si riunì, per ordine di papa Gregorio XIV, una commissione ospitata dal cardinale Marcantonio Colonna e composta dal card. Alano e da otto teologi, per curare la revisione della Vulgata della Bibbia. Nel 1622, i Colonna vendettero il Palazzo al Cardinale Ludovico Ludovisi, quindi, nel 1668, passò ai Rospigliosi. Nel teatro all’interno del castello recitò più volte i suoi versi Vittorio Alfieri.
Subì notevoli danni durante la Seconda guerra mondiale, nel corso della quale il Palazzo ospitò prima una fabbrica di paracadute, poi un ospedale militare tedesco e, infine, numerose famiglie, scampate ai bombardamenti aerei alleati. Negli anni ’60, su impulso di Elvina Pallavicini, con l’assistenza della Direzione Generale delle Antichità e Belle Arti e della Soprintendenza ai Monumenti del Lazio, furono avviati lavori di restauro per riportare il Palazzo all’antico splendore. Diventato proprietà del Comune, oggi Palazzo Rospigliosi ospita convegni e mostre.
«È con grande piacere portare nelle nostre sale le opere di arte contemporanea di Mario Ricci, affiancato dal nome di fama internazionale di Gianluca Marziani», ha spiegato la Presidente dell’Istituzione di Palazzo Rospigliosi, Andrea Celeste Peronti. «Le sue opere, fin dal primo momento, hanno colpito il mio animo e immaginarle all’interno delle nostre Sale sarà una grande emozione ed esperienza per tutti. Nell’arco del mese, inoltre, sono previste iniziative inerenti la mostra e su tematiche che riguarderanno l’aspetto socio-culturale».
Così, in queste sale, decorate da affreschi realizzati dai tanti pittori manieristi che vi lavorarono nel tardo Cinquecento, tra i quali Antonio Tempesta e i fratelli Zuccari, si dipaneranno le opere di Mario Ricci. Nato nel 1962 a Genazzano, Ricci si ispira al minimalismo e alle geometrie, ritrovando le sue tracce in Daniel Buren, Sol LeWitt, Niele Toroni e Richard Tuttle. Diplomato presso l’Accademia di Belle Arti di Roma, ha esposto in varie mostre collettive in Italia e all’estero, da La Valletta a Roma, da Seattle a Berlino.
«L’universo autorevole di Mario Ricci è silenzioso come il suono primaverile della sua Genazzano, a pochi metri dal Castello Colonna, nel cuore di un piccolo studio ipogeo che sfiora il verde aerobico del teatro boschivo», scrive Gianluca Marziani nel testo per il catalogo della mostra. «Per immergermi nel suo lessico solitario serviva una scrittura oltre il rumore urbano, un’analisi critica che ragionasse secondo solitudini specchianti e permeabili, riconoscendo all’opera la capacità esegetica di plasmare mondi senzienti dentro il silenzio ambientale, proteggendo così il percorso molare del quadro (i vari cicli di una carriera omogenea) con una gestione molecolare dello sguardo (la visione unitaria delle apparenti distanze tematiche)».
In esposizione, cinque serie di opere. I “MONOCROMI” sono blister di medicinali in pasticche o pillole, ingranditi e interpretati in tinte piene e accese, con minimi scarti dal plausibile farmaceutico. Gli “ANIMALI” attraversano le tele come fossero in movimento, dentro e oltre i perimetri del quadro, rane, tori, mosche, coccodrilli, squali che sembrano tagliare la tela, la sua spazialità monocroma. I “NERI” assorbono metafisicamente il riflesso delle luci interiori, popolando i quadri di fantasmi vivi. “VEDO BENE VEDO MALE” sono tele a righe bianche e gialle su sagome umane, che indagano i modi in cui percepiamo l’immagine seminale, dove le bande alla Daniel Buren diventano la password di decifrazione generativa. Formate da strati che incitano al ripensamento ottico, le “SOTTOTELE” ci guidano nelle ambiguità dietro ogni immagine, nel limite di ogni apparenza superficiale, nel valore che riveste il simbolo quando l’artista plasma l’opera attraverso stilemi solitari e rizomatici.
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