La mostra sviscera, attraverso concordanze e confronti, gli elementi che legano la produzione di Carla Accardi (1924-2014), Dadamaino (1934-2004) e Marina Apollonio (1940), tre artiste che hanno dato all’evoluzione dell’arte astratta un contributo fondamentale, punti di riferimento per un’arte impegnata e rivoluzionaria in Italia e all’estero.
Al primo piano, le opere di Accardi e Dadamaino sono allestite in dialogo tra loro, a ricordare anche le occasioni di incontro e confronto delle due artiste. Assedio Rosso n. 3 è la prima opera con cui lo spettatore entra in contatto. Il segno sulla tela non deve essere confuso con il tratto di una scrittura indecifrabile, ma riporta ai temi dell’energia e della vitalità, grazie all’uso del rosso come colore principale della composizione su fondo nero. Quello che colpisce in queste opere è l’inclinazione a dover riconoscere la presenza di un elemento organico, che tuttavia non esiste: Accardi aveva fatto parte del gruppo Forma 1 di Roma, quando l’Italia si trovava a metà tra i modelli della pura espressione personale dell’astrattismo americano e l’arte impegnata legata al marxismo con una funzione strettamente sociale. I movimenti artistici rivoluzionari formati dall’ibridazione di queste due esigenze indagavano la forma e la specificità dell’arte come tale. L’uso del bianco e del nero, legati alle sue “intrecciature” rivelano l’esigenza di fare pittura tramite l’antipittura.
Uno degli elementi che accomuna le tre artiste è la produzione di opere attraverso il principio della privazione. I Volumi di Dadamaino, esposti in dialogo con i suoi Oggetti ottico-dinamici e i Sicofoil di Accardi, dimostrano l’esigenza di creare qualcosa attraverso il vuoto e il ricorso all’acromia. Nei Volumi l’utilizzo del fondo nero o bianco della tela e la presenza di buchi che scavano il supporto richiamano i Tagli di Lucio Fontana, ma vi divergono per la mancanza di uno spazio altro oltre la tela, così come l’assenza di colore: acromia è la mancanza di emotività, i buchi sono il rifiuto della pratica pittorica per espandersi nello spazio fisico esistente. Anche Accardi ha intenzione di conquistare lo spazio: dagli anni Sessanta in poi produce i Sicofoil, enormi tele di plastica che liberano il segno dalla tela, immergono lo spettatore nell’opera tramite la luce che filtra attraverso il supporto e coinvolgendolo nella creazione artistica.
Questa ricerca del movimento verso l’esterno, attenti alla partecipazione dello spettatore, è operata anche da Marina Apollonio nella serie Dinamica Circolare, allestita al secondo piano della galleria. L’artista studia i movimenti di meccanica ondulatoria e invita il pubblico a muovere le sue opere, creando un’arte di azione in cui l’esperienza dell’opera è data dagli effetti ottici provocati dalle linee disposte sulla superficie circolare. Apollonio, di una generazione più giovane di Accardi e Dadamaino, è una delle figure più importanti del movimento ottico-cinetico internazionale. Le sue ricerche sulla percezione e sulla comunicazione visiva l’hanno portata a scegliere come formato il cerchio, le cui distorsioni, attraverso il movimento, portano a percepire curve e pieghe della superficie che non esistono, verso la privazione di riferimenti con il mondo esterno e l’antinaturalismo del bianco e del nero. Il connubio tra scienza e arte, auspicato già a partire dagli anni Cinquanta, è testimoniato non solo da Apollonio, ma anche dagli Oggetti ottico-dinamici di Dadamaino, dalla plastica dei Sicofoil di Accardi: l’uso di rapporti geometrico-matematici e di materiali innovativi per il tempo come la plastica, espandono il segno nell’ambiente, privandolo di collegamenti con l’esterno, anche quando sembrano palesi. È il caso di Costellazioni di Dadamaino e delle sue successive declinazioni, Il movimento delle cose e Sein und Zeit, in cui il riferimento ingannevole a forme organiche su fogli trasparenti di poliestere è implicito fin dai titoli: un agglomerato cosmico, un cammino in divenire, “il tempo e l’essere” che danno dimensione materiale e collocazione alle opere. Sono, dopotutto, le opere definite “della maturità”, dagli anni Ottanta ai primi anni del Duemila, quando anche Accardi riscopre la pittura su tela grezza, come già nella monumentale Arancio Verde, dove si propende verso il colore.
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