Muro, forma, colore. Linea, punto, segmento. Pensiero, idea, ideologia. E daccapo. È un po’ il racconto dell’umanità tutta ma anche la storia che si narra a Berlino durante gli anni ‘70 e ‘80. Non ci riferiamo solo a mattoni, camionette dei Vopos e torrette d’avvistamento ma a un gruppo di artisti che ha affrontato, prima e dopo quel fatidico 9 novembre del 1989, sia la minaccia del Mauer che tutto quello che lo circondava: il Todesstreifen. La striscia della morte, ovvero, il vuoto che i berlinesi (e non solo) hanno dovuto faticosamente riempire, attraversare tante volte, con la forza della disperazione, certo, ma anche della immaginazione e della creatività. È questa la storia che ci racconta “Berlin 1989 – La pittura in Germania prima e dopo il Muro” mostra allestita nelle sale di Palazzo Zevallos Stigliano, sede di Napoli delle Gallerie d’Italia di Intesa Sanpaolo, a cura di Luca Beatrice, visitabile fino al 19 gennaio 2020.
Li chiamano Neue Wilden (Nuovi Selvaggi) o Junge Wilde (Giovani selvaggi) della pittura. Ma proprio come i barbari che danzano sotto mura diroccate, essi hanno storie, idee, approcci i più diversi, a volte contrastanti. Il percorso di “Berlin 1989” alle Gallerie d’Italia parte idealmente dal rarefatto Rot–Blau–Gelb, Rosso-Blu-Giallo (1972) di Gerhard Richter, il metronomo della mostra, l’indagatore, il classificatore di ogni colore e «strato cumulativo di pittura». E con la fuliggine Untitled (1991) di Jiří Georg Dokoupil, creatore di più di 100 tecniche pittoriche. A smentire ogni codice figurativo e narrante, ogni approccio immediato, spontaneista di questi artisti.
Al centro, non solo dello spazio espositivo, la materia “oscura”, plasmata delle mani di Anselm Kiefer (Untitled, 1994 e The Terror of the Ice and the Darkness, 1986 -1991) a fare letteralmente da corpo morto, da àncora perenne davanti cui dobbiamo ogni volta soffermarci e rifletterci. Tra questi due poli, logici quanto sensuali, si staglia un variegatissimo parterre di opere che delineano tutto lo spettro emotivo, dal gioioso al sofferente.
In una Berlino tenuta in vita da un epocale sforzo tanto sociale e bellico, quanto, soprattutto, umano e spirituale, per artisti come A.R. Penck, Standart (1993), dipingere una superficie, muro o tela che fosse, diveniva la prima forma di cura interiore, individuale ma, soprattutto, di difesa politica e sociale. Così lo sfondo incantato, la visione laterale e liberatoria del cielo azzurro in Inquisition (1988) di Markus Lupertz o la decostruzione basica, delicata e grossolana del gesto, del movimento e del tempo pittorico di Albert Oehlen in Dr (2002).
Se è vero che «ogni volta che dipingi qualcosa di astratto, l’occhio ti porta a cercare un elemento figurativo e viceversa» (Lupertz), la figura umana torna in modo prepotente, da protagonista, seppur disillusa. K. H. Hödicke, Rainer Fetting, Hermann Albert, sono artisti consapevoli che queste figure sono «un campo di battaglia per la gestione del colore» e che i loro corpi non avranno mai le linee divine greche tanto meno i punti ad infinitum della pellicola fotografica. Eppure, niente è più «illusorio, aggressivo e profetico» di una tela dipinta a mano, magari da chi come Jörg Immendorff declina tutta la storia della Germania e dell’Europa in un bar o sullo stage di un teatro (Raub Der Sabinaerin, 2003).
La ricerca diviene così, ogni volta, libera, spietata, brutale, con effetti dirompenti, come in Georg Baselitz (Nach Radebeul, 2002) e Sigmar Polke (S.H. – oder wann zählen die Punkte?, 2002) senza definizioni di sorta. È un movimento in cui la libertà sembra l’unico vero codice, l’unico obbligo. E che non ci risparmierà di divenire poi anche essa, nuova ideologia, nuova lex mercatoria.
Se però tutta la questione è «dove cade la luce» (Kiefer) è sempre giusto tornare alla forma indecifrabile come al racconto, al colore come al dolore, dopo la fine delle grandi responsabilità, delle grande pressioni – e repressioni – del Nouveau d’ Avant-garde. E quindi in un questo crush epocale tra spinte alla libertà e vite dissolute e dissolte nella militanza, dove la creatività, paradosso, sembra in fuga dalle ricerca della sperimentazione più che dalla sperimentazione tout-court, ripetiamo il nostro adagio: muro, forma, colore. Linea, punto, segmento. Pensiero, idea, ideologia. E daccapo.
Domenico Sgambati
Dal 12 ottobre 2019 al 19 gennaio 2020
Berlin 1989
Gallerie d’Italia – Palazzo Zevallos Stigliano, Via Toledo 185, Napoli
Orari: Da martedì a venerdì dalle 10:00 alle 19:00, Sabato e domenica dalle 10:00 alle 20:00
Info: https://www.gallerieditalia.com/it/napoli/mostra-berlin-1989/
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