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Continua il nostro viaggio tra opere e artisti più o meno convincenti alla 16ma Biennale di Istanbul, tra esibizioni di forza che tradiscono le aspettative, come nel caso di Arter, in una città che continua a rigenerarsi autodistruggendo il suo passato, come nel caso della ricostruzione di Istanbul Modern e di tutta l’area di Tophane affacciata sul Bosforo, nonché della immensa Moschea che ha preso forma in piazza Taksim (in ritardo con la data di inaugurazione, che era prevista per il novembre 2018) e di quello che sarà il nuovo Centro culturale intitolato ad Atatürk – il padre della moderna Turchia – che a sua volta ha visto la sua vecchia sede chiusa negli scorsi anni e poi demolita. Ma anche qui, forti della sindrome edilizia di Istanbul, siamo sicuri che il governo manterrà le promesse. Questo preambolo sul contesto, però, ci serve per raccontarvi che una delle migliori esposizioni a Istanbul, nel periodo della Biennale, è invece allestita in due spazi storici, al SALT Beyoğlu, a pochi metri da Taksim, e nella seconda sede del SALT, a Galata.
Protagonista è Nur Koçak, artista femminista turca, classe 1941, studi a Istanbul e a Parigi, che dagli anni ’70 ha indagato, tramite una splendida pittura iperrealista, la condizione della donna nelle società consumistiche e la sua oggettivazione come prodotto a uso e consumo del mercato.
“Our blissful souvenirs”, titolo della più completa mostra dell’artista mai realizzata in Turchia, comprende disegni, pitture e sculture realizzati in oltre cinquant’anni di carriera, come la serie Object Woman, ispirata alle foto commerciali dei giornali femminili, in cui Koçak isola parti di corpo esasperandole col colori saturi, togliendo qualsiasi riferimento identitario e dando spazio a quell’anatomia voyeuristica, del desiderio masturbatorio e del prodotto reclamizzato, che andavano forte sui giornali europei.
Troviamo poi le immagini dedicate alle donne del cinema, dell’arte e della letteratura che raccontano il loro ruolo nella società turca, ispirate dalla figura dell’attrice e regista Cahide Sonku, la prima donna ad avere un peso nell’ambiente del cinema degli anni ’50, non solamente come femme fatale.
L’ultima serie fotografica, portata avanti da Nur Koçakdal 1989 e ripresa negli ultimi tempi, è dedicata alle vetrine delle zone centrali di Istanbul, che espongono lingerie e accessori erotizzanti per le fantasie maschili, mentre i tratti somatici delle indossatrici o dei manichini – ancora una volta – sono completamente assenti.
Un’occasione per riflettere senza troppe sovrastrutture sull’immaginario, sullo sfruttamento sessuale, non solo fisico ma anche mediatico, e sui “nostri tempi interessanti”, in una città che – anche sotto questo punto di vista – offre innumerevoli spunti di riflessione e cortocircuiti, tra burqa, chador e short di turiste tedesche; tra i pochi metri che separano la nuova immensa Moschea e la Chiesa della Santa Trinità. Ma se, nonostante tutto, il business è business, fa molto piacere, all’alba del 2020 e nel corso di una manifestazione importante come la Biennale di Istanbul, osservare che stavolta la censura sembra non aver toccato né il SALT né questa grande artista, e il suo pensiero.