Ad un anno dall’apertura dello spazio espositivo, la fondazione veronese inaugura la mostra Bloodchild. Scenes from a Symbiosis curata da Domenico Quaranta. Attraverso questo terzo progetto espositivo viene offerta alla comunità la possibilità di confrontarsi con una realtà di fatti che ha da tempo travalicato le pagine della scrittura fantascientifica presentandosi attraverso le teorie proprie del postumanesimo. Si tratta di una corrente di pensiero che considera l’uomo non più secondo la visione rinascimentale – e appunto umanistica – antropocentrica, quanto invece in relazione simbiotica con l’ambiente circostante e, soprattutto, colto in un momento evolutivo nel quale la tecnologia sembra inscriversi nel suo corredo genetico.
Siamo di fronte ad un processo di metamorfosi che, lungi dal configurarsi come un attacco perpetrato nei confronti dell’umanità, è il risultato di quello che il teorico Giuseppe O. Longo ha descritto, conformemente con quanto attiene alla biologia, come «uno stretto rapporto di convivenza e di mutuo vantaggio tra due specie diverse» che dà origine al simbionte. Esso è infatti concepito come un uomo che, al fine di sopravvivere all’interno di un ecosistema ostile, si fonde nella carne con dispositivi tecnologici compiendo un superamento del dualismo natura-cultura congenito nella concezione umana dell’Io.
Nelle sculture di Ivana Bašić, corpi ibridi immortalati in uno stato intermedio e incompleto si presentano come crisalidi, tanto affette da una dolorosa lacerazione e decomposizione delle membra, quanto in attesa di realizzarsi in chimeriche e proteiformi creature in grado di sopravvivere di fronte alle condizioni alle quali sono sottoposte. La sopravvivenza della specie umana è perseguibile unicamente, come narrato nel racconto di Octavia L. Butler con il quale la mostra condivide il titolo, accettando di accogliere in sé il non-umano che, in quanto phàrmakon, muta l’identità originaria dell’Io. Tragicamente indefinito, il simbionte rappresentato dall’opera Belay My Light, the Ground Is Gone è indefinibile, è ne uter, nessuno tra due, dove l’uno e l’altro – uomo e tecnologia – erano in precedenza ontologicamente determinabili e distinguibili.
Una tale condizione di trasformazione è sperimentata allo stesso modo dai soggetti rappresentati nelle opere di Oliver Laric. Tuttavia, va letta in esse una differente disposizione nei confronti dell’indeterminazione sottesa e conseguente la mutazione. Osservando i suoi lavori non si percepisce, infatti, quella lacerazione che affligge i corpi di Bašić, quanto la possibilità insita nel concetto di mutevolezza. Se Exoskeleton appare come la narrazione di un processo evolutivo transepocale e, allo stesso tempo, costantemente legato ad ogni tempo presente, in cui cellule procarioti, dinosauri, insetti e altri animali partecipano al circolare e sempre diverso procedere della vita sulla terra, Reclining Pan è tutto questo fissato in una forma unitaria. Il suo corpo ibrido porta visibili sulla pelle i segni di questa storia stratificata di apertura all’altro, di sopravvivenza attraverso l’unione.
Questo aspetto dell’unione, della collaborazione è condiviso anche dalle opere di Sahej Rahal, che trovano piena ed effettiva realizzazione nell’interazione tra uomo e macchina. Le sue creature digitali biomorfe sono immerse in un distopico panorama futuro dal quale l’uomo è scomparso. Tuttavia, tracce di esso, esterne o interne a tale universo, sono l’elemento di attivazione del processo di mutamento. Quando, in Druj, l’indefinibile forma di vita reagisce, attraverso un software, all’input sonoro che recepisce, lo fa adattando il proprio aspetto in un’ottica che il curatore ha definito di “mimetismo difensivo” e che permette di provare una strana empatia. Tale emozione estetica è melanconicamente innescata viceversa nelle creature postumane di DMT (Distributed Mind Test) quando scorgono frammenti di un’umanità perduta.
Caustica è invece la lettura del rapporto uomo-macchina proposta da Lynn Hershman Leeson, da decenni indagatrice di tematiche quali intelligenza artificiale, cibernetica e ingegneria genetica, tutti condensati nel sardonico film di science fiction Teknolust, in cui la biogenetista Rosetta Stone, ricorrendo all’intelligenza artificiale, dà vita a tre cloni che per sopravvivere ricorrono a materiale biologico umano. A vent’anni di distanza, con Logic Paralyzes the Heart, l’artista torna su tale sistema tecnologico per ritracciarne la storia: nata in ambito bellico, l’intelligenza artificiale va ora riconsiderata nell’ottica di una rinnovata convivenza tra due sistemi indivisibili poiché estensione l’uno dell’altro e reciproco strumento di approccio al reale.
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