Una volta un politico disse che per essere realisti bisogna credere nei miracoli. Ancor più dove le parole possono precedere e determinare azioni. L’approdo di Marion Baruch (1929, Timisoara) in un’istituzione in Israele, a Tel Aviv, dove «la cultura può veramente assolvere a compiti sociali importanti, promuovendo valori di pace e stabilità e facilitando il dialogo in scacchieri sensibili», dalle parole di Maria Sica, Direttrice dell’Istituto Italiano di Cultura di Tel Aviv, può essere considerato tale.
Autonome, proprio come lei, da ogni restrizione stilistica, le opere di Marion Baruch sono radicate nella contaminazione: dalla pittura espressiva all’arte grafica, dalla scultura alla pratica partecipativa, dall’installazione al coinvolgimento della comunità dei “sans-papiers” (immigrati illegali), fino al più recente riuso di scarti tessili dall’industria del prêt-à-porter.
In occasione della mostra “Marion Baruch: Bomba”, inaugurata il 15 settembre e co-curata da Noah Stolz e Nicola Trezzi, abbiamo parlato con Maria Sica, per conoscere all’interno e dal suo interno Tel Aviv, “luogo di identità plurime”, e per riconoscerci, più da vicino, in un lessico innegabilmente universale come quello della mostra – organizzata da CCA Tel Aviv-Yafo con il sostegno dell’Istituto Italiano di Cultura, Tel Aviv, insieme a Galerie Urs Meile, Lucerna / Pechino e Sommer Contemporary Art Tel Aviv / Zurigo.
Direttrice, dopo Zagabria e Stoccolma, dirige ora l’Istituto di Cultura di Tel Aviv. Cosa l’ha portata in Israele e che cosa ha trovato una volta arrivata?
«Ero stata In Israele, ma per una manciata di giorni, molti anni fa. Poco più di un city break, ma decisamente troppo poco per un Paese che si presenta subito come un luogo di identità plurime e non solo per le diverse appartenenze linguistiche, nazionali, etniche, religiose. Questa pluralità si ritrova anche sul piano culturale, nel senso che questo è un Paese antico e nuovo nello stesso tempo, dove si passa dall’archeologia biblica agli spettacoli della Batsheva Dance Company fondata da Marta Graham, uno dei gruppi di danza contemporanea più coinvolgenti e rivoluzionari del mondo».
In una prospettiva di continuità e confronto, che cosa accomuna e cosa differenzia l’esperienza direttiva in queste tre capitali?
«Le differenti esperienze di lavoro non sono mai sovrapponibili. L’unica cosa che viene confermata, sempre, è la necessità di porsi in ascolto, di capire lo spirito del luogo dove ci troviamo ad operare per poter avviare una relazione di scambio che sia veramente un momento di dialogo e di conoscenza reciproca. Tel Aviv, ad esempio, è una città dove si fa vita all’aria aperta per la maggior parte dell’anno. La spiaggia che delimita la città è frequentata tutto l’anno, a tarda sera si va a giocare a beach volley, e quindi questa energia di chi ha voglia di stare bene, di incontrarsi, di stare all’aperto va tenuta presente nella definizione di un programma annuale di attività».
Parlando del presente, a Tel Aviv inaugura la prima mostra istituzionale dell’artista Marion Baruch. Come è nata l’idea e come è stata concretizzata e inserita nel tessuto culturale di Tel Aviv?
«È in atto un processo di studio che attraversa tutti gli ambiti della ricerca, non solo della cultura in senso stretto, che punta ad un riposizionamento del ruolo delle donne nella storia. Per quello che riguarda la creatività femminile, in relazione ai movimenti artistici, è in corso un approfondimento che intende riconoscerne il peso e che ponga all’attenzione le donne nell’arte non più e non solo come muse, ma riconoscendo loro pienamente il ruolo di artiste. Grandi artiste, proprio come Marion Baruch, cui bisogna restituire lo spazio che meritano. La possibiitá di poter realizzare la mostra è stata dovuta da un lato dalla presenza di una realtà museale di grande pregio e professionalità come il Center for Contemporary Art diretto da Nicola Trezzi, ma anche dalla possibilità dataci dal Ministero Affari Esteri, dalla Direzione Generale per la Diplomazia Pubblica e Culturale, di poter essere protagonisti in progetti di forte rilevanza culturale. Nella sua carica di novità rispetto all’artista che verrà presentata, di cura scientifica nella preparazione del progetto espositivo, ma anche di continuità, se pensiamo che due anni fa il nostro istituto ha condiviso un progetto con altre sette istituzioni internazionali tra cui la Bauhaus Foundation di Tel Aviv per presentare una straordinaria mostra di Irma Blank, che si pone nel medesimo solco di una rilettura più attenta dell’arte italiana dell’ultimo secolo, la mostra di Marion Baruch è un evento che non deluderà le attese».
Per la mostra, intitolata “Marion Baruch: Bomba” l’artista ha creato un’opera omonima, Bomba. Quale è il suo significato più intimo e come si svilupperà, anche attraverso le reazioni del pubblico, nel contesto dello spazio, espositivo ma anche geografico e culturale?
«Bomba (2022) è un’opera creata appositamente per questa mostra, un pittura-scultura che si inserisce nel lavoro che l’artista svolge negli ultimi anni in cui riusa scarti tessili dall’industria del prêt-à-porter. Consiste in un’inedita composizione monocromatica di “lembi” di stoffa, abiti una volta appartenuti all’artista. Quest’opera prosegue la pratica di Marion Baruch con il tessuto e prosegue la narrazione di quelli che lei stessa chiama i miti tessili (Aracne, le Parche, Arianna), una consuetudine che segna tutta la sua biografia e che si presenta come linguaggio in un luogo, Tel Aviv, che ha avuto una industria tessile molto fiorente negli anni ’60-‘70 e che ancora oggi si rinnova sia nella manodopera femminile legata al tessile, quanto anche nelle forme di una pratica artistica da sempre legata all’universo femminile».
Che impronta darà all’Istituto Italiano di Cultura, da un punto di vista artistico ma anche sociale, con Marion Baruch e dopo di lei?
«Le tematiche di genere, che in questo caso si accompagnano ad un lavoro di ricerca, così come quelle legate all’ambiente occupano senz’altro uno spazio importante nel nostro programma perché rappresentano le linee ispiratrici indicate dal nostro tempo. Procedono in contemporanea con mille altre cose. Tra tutte, mi piace citare un progetto centrato sui giovani e le periferie che prevede azioni culturali in quartieri periferici della cittá ma anche in piccole città periferiche rispetto a Tel Aviv e Gerusalemme, a ridosso di aree ‘calde’ del Paese, dove la cultura può veramente assolvere a compiti sociali importanti, promuovendo valori di pace e stabilità e facilitando il dialogo in scacchieri sensibili».
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