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CAMERA, a Torino Margaret Bourke-White e Paolo Novelli
Mostre
Il primo numero di Life, periodico settimanale americano fondato dal giornalista ed editore Henry R. Luce, debutta con una fotografia di Margaret Bourke-White (1904-1971). L’immagine ritrae la costruzione della diga di Fort Peck, negli Stati Uniti, la seconda tra le più grandi al mondo. La foto rappresenta la prima fase di ricerca dell’artista americana dedita a documentare architetture industriali, considerate come simbolo del progresso. «Per come la vedevo io, le industrie erano più belle di altre strutture architettoniche perché non erano state realizzate per essere belle. Possedevano una semplicità di linea che deriva proprio dalla funzione per cui erano state costruite» (Margaret Bourke-White, Il mio ritratto, 1963). La fotografa è appassionata da queste colossali e brutali strutture e ne cattura aspetti nascosti con la curiosità dei non addetti ai lavori.
Nel 1936 Margaret Bourke-White è una delle dieci donne più celebri, distinguendosi come personalità emancipata e stravagante, eroica e avventurosa. Il suo sguardo si sposta ovunque possa raccontare e mostrare la vita. Con il tempo inizia ad interessarsi alle persone, soprattutto ai lavoratori delle classi operaie. Se nelle prime foto sono piccole figure ai piedi delle grandi industrie poi diventano i protagonisti dei suoi scatti. È come se Bourke-White volesse comprendere i meccanismi sociali dell’evoluzione umana. Nonostante la sua fede nella scienza, i momenti da lei immortalati non sono felici. I soggetti sono lavoratori sfruttati e stanchi, seppur dignitosi. I cieli sono solcati dal fumo che esce dalle ciminiere o dalle esplosioni della guerra.
Gli scatti con il tempo diventano un crescendo drammatico, mostrando l’altra faccia della medaglia del progresso. Margaret Bourke-White è stata la “prima fotografa” della Seconda Guerra Mondiale, il suo materiale sarà usato come testimonianza durante il processo di Norimberga. Il percorso espositivo di Camera accompagna nel corso dei dei viaggi di Margaret, come un flusso di coscienza che si evolve cercando di raccontare la storia del mondo. Gli occhi della fotografa americana non hanno timore di vedere e affrontare la realtà, sono un autentico filtro attraverso cui ci è oggi possibile non dimenticare alcuni dei momenti più bui del Novecento. Uno dei suoi ritratti più iconici è senza dubbio quello di Stalin, uno dei pochi concessi a una foto-giornalista americana durante gli anni del piano quinquennale.
Nel percorso della mostra da CAMERA, che cura Monica Poggi, lo scatto Seguaci sikh migrano verso la loro nuova patria (1947) ricorda le composizioni pittoriche del realismo ottocentesco. Mentre alcune fotografie documentano atrocità umane come Un sudcoreano non inquadrato tiene per i capelli la testa mozzata di un guerrigliero comunista nordcoreano mentre un membro della polizia nazionale sudcoreana sorride con un’ascia sulla spalla (1952). I titoli delle fotografie sono didascalici, raccontano la scena dettagliatamente. Margaret Bourke-White dimostra un temperamento audace e determinato, sarà proprio lei ad intervistare Gandhi, qualche ora prima della sua morte. L’ultima parta della mostra è dedicata al tema del razzismo che affligge gli Stati Uniti. Ritrae i minatori intenti alla ricerca dell’oro e allo stesso tempo le feste degli afrikaner, i discendenti dei primi colonizzatori europei. Questi saranno gli ultimi scatti prima dell’avvento della malattia che la costringerà ad intraprendere una nuova lotta.
La mostra è corredata dal catalogo Margaret Bourke-White. L’opera 1930-1960 a cura di Monica Poggi, edito da Dario Cimorelli Editore.
Contemporaneamente, nella project room di CAMERA, la mostra Il giorno dopo la notte, a cura di Walter Guadagnini, introduce nel mondo analogico del fotografo Paolo Novelli (Brescia, 1976). Fotografie in bianco e nero ritraggono finestre chiuse da serrande o addirittura murate. Intese come soglia invalicabile offrono una riflessione sull’incontro tra luce e ombra, tra dentro e fuori. L’osservatore viene messo di fronte ad una finestra chiusa, adeguandosi alla condizione di inaccessibilità del varco. Una sorta di interpretazione occidentale della filosofia taoista che sembra domandare di fermarsi a riflettere sulla necessità di imparare a confluire nell’alternarsi delle fasi della vita.