Sarà visitabile fino al 30 settembre 2024, presso il Museo Civico Gaetano Filangieri di Napoli, la mostra MEMOMIRABILIA di Carmela De Falco, a cura di Gianluca Riccio e Alessandra Troncone, realizzata con il sostegno del Ministero della Cultura e di SIAE nell’ambito del programma “Per Chi Crea”, in collaborazione con l’Accademia di Belle Arti di Napoli. La mostra è promossa dall’Associazione Il Rosaio – Arte e Cultura Contemporanea e gode del Matronato della Fondazione Donnaregina per le arti contemporanee.
La pratica moderna della costituzione e della tutela di uno smisurato patrimonio mnestico trova le sue radici storiche nello sviluppo degli studioli nel XV secolo e nelle grandi collezioni enciclopediche della metà del XVI secolo. Queste collezioni, allineandosi alla riflessione scientifica, tendevano a offrire una tassonomia del mondo visibile, strutturandolo in maniera sistemica. Come riportato dall’Enciclopedia Treccani, già Galileo Galilei, nelle Considerazioni al Tasso (1595-1609), rifletteva sulle differenze tra il gabinetto di curiosità e la galleria, descrivendo i due ideal-tipi di proto-collezionisti in una forte antitesi: uno sguardo antropocentrico e scientista, volto ad assoggettare la natura al sistemico, e un atteggiamento inquieto che si esprimeva con un interesse per la bizzarria. Pertanto, se nel primo caso la categorizzazione passava attraverso una funzione totalizzante, nel secondo questa si basava su criteri di rarità estetica.
Tra gli oggetti raccolti, i naturalia (gemelli siamesi, animali rari, frutti di dimensioni fuori dal comune) erano offerte spontanee della natura, mentre gli artificialia erano creazioni umane rinomate per la loro unicità (manufatti realizzati con tecniche complesse o segrete). Conservati nelle Wunderkammern, sia i naturalia che gli artificialia erano definiti mirabilia, cioè oggetti destinati a stupire e meravigliare.
Da questa tradizione, che ha gettato le basi per una pratica museologica allo stato embrionale, prende spunto il concept della mostra MEMOMIRABILIA di Carmela De Falco. Un’operazione curatoriale che decostruisce concettualmente le metodologie di esposizione tradizionali, rivolgendo inevitabilmente lo sguardo sui processi culturali di musealizzazione. D’altronde, sia la museologia moderna, intesa come istituzionalizzazione dell’opera, sia la costituzione delle collezioni delle Wunderkammern condividono la sottrazione dell’oggetto dal suo uso quotidiano per trasferirlo in una dimensione sacrale. In entrambe le prassi, l’oggetto viene prelevato dal suo contesto originario e presentato in modo tale da accentuarne il valore e il significato, elevandolo a un livello di meraviglia e contemplazione. Le problematiche che ne possono derivare hanno costituito un perno di riflessione centrale per le Avanguardie del secolo scorso, da Duchamp fino alla Institutional critique del secondo Novecento.
Nella mostra, questa dinamica è resa evidente nello choc provocato dall’incontro casuale (o juxtaposition) di oggetti e materiali prelevati da una dimensione temporale a noi prossima, come camicie, orologi, monete e cinture, che contrastano con i manufatti storici presenti nel gabinetto di curiosità del principe di Satriano Gaetano Filangieri. Per dirla con Alois Riegl, se da un lato si ha la possibilità di godere del “valore dell’antico”, dall’altro si inseriscono opere caratterizzate da un “valore di novità”. Il divario sta tutto nelle diverse modalità di coniugare il kunstwollen in relazione ai valori, alle credenze e alle preoccupazioni culturali di una determinata epoca che, nel nostro caso, si caricano di una certa tendenza ermeneutica e autoriflessiva.
In questo senso, la Wunderkammer “dell’ordinario” di De Falco sovverte i criteri di selezione e, con un’attitudine duchampiana, ripensa lo spazio museale attraverso la messa in scena di oggetti d’uso comune. Un’ulteriore pars destruens si rintraccia a partire dal fatto che questi reperti del quotidiano, sono parzialmente e quasi impercettibilmente alterati, generando una forte ambiguità estetica rispetto alle opere presenti in collezione, decostruendo le dinamiche culturali del concetto di collezione museale in lato sensu.
Il corpus di opere si innesta sul topos del doppelgänger, che se da un lato rimanda concettualmente all’idea di «raddoppiamento visibile […] della riflessione scientifica» (Cataldo, Paraventi, 2007) tipica del metodo di campionamento che è alla base delle raccolte scientifiche e della nozione di Wunderkammern, dall’altro si esprime puntualmente e formalmente nelle varie soluzioni esecutive.
È il caso di Camicie identiche (2024), che consiste in due camicie della stessa taglia e colore, unite in modo permanente attraverso la resina e disposte una sopra l’altra lievemente disallineate, creando un effetto di discontinuità che evoca una dimensione di alterità rispetto alla loro forma originaria; Aperto e chiuso (2024), costituita da due maniglie che instaurano una condizione di contrasto insolito che sfida le aspettative di funzionalità, risultando in un’interazione spaziale contraddittoria e visivamente paradossale; Dialogo (2024), un’installazione sonora che consiste in due tracce audio che generano un ping-pong di rimandi tra le vocalizzazioni di due cantanti professioniste. Un dualismo che persiste anche in Doppia cintura (2024), Premio e castigo (2024), Testa o croce (2024), Persona che cammina (2024) – che richiama sia il “palazzo che cammina” (soprannome del Museo Filangieri) sia la radice etimologica di doppelgänger, “doppio camminatore” – e in Due uccelli che litigano per un pezzo di pane o un uccello nutre l’altro (2024).
In quest’ultima opera, il titolo non contribuisce a definire un’univocità semantica; al contrario, anziché fungere da “ancoraggio verbale” – come lo definirebbe Roland Barthes – esso favorisce un’oscillazione di senso che incoraggia una molteplicità di interpretazioni per lo spettatore. Sebbene in questo caso si favorisca una interazione contemplativa, i rischi relativi al pregiudizio che contrappone l’azione allo sguardo nei processi di emancipazione dello spettatore che possono facilmente riabilitare una teologia autoriale che tende a sottostare a un regime etico dell’immagine (Rancière, 2008), sono insiti nella retorica implicita che caratterizza il discorso sulla perdita dell’aura benjaminiana e in una sua rilettura – e resistenza – apocalittica (trita e ritrita), rintracciabile in un’opera come Ritratto (2024), che sembrerebbe rappresentare un blasé simmeliano, ormai esausto e consumato dalla produzione iperbolica di immagini fondate sul culto dell’esponibilità.
Questa produzione incommensurabile si condensa, metaforicamente, nelle modalità espositive bulimiche di una certa museologia tradizionale desueta, che qui appare attentamente illuminata e ri-attivata attraverso degli spotlights che ne sottolineano il punctum barthesiano, che assurge a strategia patemica per risvegliare lo spettatore dal suo torpore visivo. Sebbene la ricerca del dettaglio si faccia resistenza e volontà di dissenso, andrebbe constatato che quest’ultimo, se indotto, non offre spazio per l’emancipazione del singolo e finisce per fare della mera pedagogia reazionaria.
In questo senso, se da un lato le strategie derivanti dall’illuminotecnica abilitano un discorso stimolante dal punto di vista di una possibile flâneurie dello sguardo, l’archetipo del manichino quale metafora della perdita di identità e autenticità, emblema di una società sempre più atomizzata e soggiogata dall’idea di un idillio perduto, non convince del tutto, in quanto anche se «Ognuno è rinviato a sé» e «Ognuno sa che questo sé è ben poco» l’alienazione non è assoluta. “L’uomo senza qualità” vive piuttosto in un intreccio di relazioni mobili nel quale riesce ad avere un potere variabile sui messaggi che circolano attraverso le possibilità insite nello scarto lasciato dallo «spiazzamento» dei giochi linguistici (Lyotard, 1979), come si è potuto osservare nel caso dei Due uccelli (2024).
Proseguendo, vale la pena constatare l’importanza del foglio di sala, che funge da strumento ausiliare in quella che si presenta come una vera e propria caccia al tesoro: le opere di De Falco si inseriscono nel contesto espositivo senza stravolgerlo, in maniera timida, lavorando su quella dimensione che Thierry Davila ha definito Inframince, ovvero la tendenza delle pratiche afferenti al readymade, all’appena percettibile, insito nella volontà di «Catturare la più piccola sfumatura del mondo» (Dezeuze, 2017). In questo senso, la possibilità di fruizione dello spettatore si palesa nel «Divario infrasottile» (Ibidem) che tende a sottrarsi dallo sguardo (è il caso di Fuga dalla forma, 2024), richiamando una forma di performatività spettatoriale e aprendo un campo di indagine sulla natura stessa della percezione.
Infine, se i processi descritti destabilizzano la cornice dello spazio museale, pongono in essere una riflessione latente sui meccanismi di costruzione della memoria e dell’identità collettiva, sollevando interrogativi sulla natura dell’opera e della sua fruizione. La mostra invita, quindi, lo spettatore a considerare diverse prospettive sulla relazione tra oggetti esposti e il loro significato culturale, stimolando una riflessione critica sul ruolo del museo come luogo di conservazione e sulle diverse possibilità di narrazione.
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