Ugly woman scratching her head parte come la didascalia di un’immagine scaricata dal web. Una donna che si gratta il capo, la mimica stereotipata di un personaggio sovrappensiero, immortalato in un momento di silenziosa riflessione e descritto da un titolo banale e letterale. L’inizio di questa storia sembra non suggerire niente di particolare, eppure è proprio questa banalità così lampante a darci un’importante anteprima di ciò che ci aspetta nella nuova mostra ospitata dalla Galleria Delfini, la prima in galleria dell’artista Catherine Biocca.
Già solo questo titolo potrebbe essere visto come una sorta di dichiarazione di intenti dell’artista, che ci dimostra fin da subito la sua capacità di dare carattere e spessore anche ad elementi anonimi, massificati.
Di Biocca, la galleria Delfini espone quattro quadri di piccole dimensioni, con protagonisti dei vasi con volti umani disegnati con una sorta di schiuma poliuretanica colorata. Queste tele sono certamente un’ottima finestra attraverso la quale affacciarsi sulla dimensione surreale e sull’atmosfera giocosa tipiche del linguaggio dell’artista.
Tuttavia, è un’altra l’opera centrale di questa esposizione. Un’installazione multimediale pensata appositamente per lo spazio della galleria Eugenia Delfini. È attraverso quest’ultima che traspare la sua forte natura sperimentale, il suo linguaggio composito che sfrutta le qualità di diversi media, strumenti e materiali, molto spesso decisamente non convenzionali. Con un modus operandi bizzarro e l’estetica surreale che la caratterizza, il suo intervento ha trasformato lo spazio della galleria in un non luogo, etereo e sconfinato, che si fa teatro di un’accesa discussione esistenziale tra due improbabili anime perse. L’opera in questione si espande su due piani: quello digitale, grazie a una trasmissione su tre canali video sincronizzati; e quello materiale, per la presenza di manichini in alluminio.
La donna e il cane, questi gli improbabili protagonisti di questo racconto multimediale, si presentano come figure silenziose e inquietanti che dominano lo spazio fisico della galleria. La nostra attenzione non può resistere al magnetismo di queste presenze, così semplici eppure tanto ingombranti, tuttavia una vocina squillante accompagnata da una musichetta gradevole ci risveglia da questo stato di ipnosi. Un bicchiere con degli occhioni in stile manga inizia a decantare uno strano monologo, una sorta di proemio che presto si tace e ci lascia da soli, ad assistere al folle dialogo degli “avatar” di quegli stessi personaggi che ci avevano catturato poc’anzi. I due iniziano a scontrarsi in un dibattito dai toni accusatori, a tratti scurrili, ma che mantiene sempre un fondo d’ironia.
Un ambiente sterile e ultraterreno, un cane parlante, una donna e un bicchiere il cui ruolo nella vicenda rimane incerto. Un saggio, per quanto improbabile, moderatore? Un’entità divina che governa quel non luogo infinito? L’interpretazione è tutt’altro che facile, ma è proprio questo il bello.
L’atmosfera onirica e il suo intrecciarsi in una sinestesia di media, non sono elementi prettamente estetici, questa costruzione dell’assurdo è sì coinvolgente a livello di stimoli visivi e uditivi, ma anche necessaria per la corretta veicolazione del messaggio; ovvero quanto sia difficile comunicare, in un tempo in cui si è quasi costretti ad intraprendere in modo indiretto persino le interazioni più semplici; o quanto può essere problematico ascoltare il prossimo, in un mondo in cui il tempo massimo di attenzione si è ridotto ad una manciata di secondi.
Quale modo migliore di evidenziare le difficoltà legate al capirsi l’un l’altro, se non tramite un confronto tra due specie che convivono da migliaia di anni senza mai essersi capiti a pieno a vicenda? Se la situazione fosse stata più verosimile – magari coinvolgendo due elementi simili tra loro – quest’opera non avrebbe avuto la stessa efficacia.
Entrambi i personaggi si esprimono con freddezza, un tono scandito e asettico che non lascia molto spazio alle emozioni. Eppure, nonostante questa comune condizione di esistenza, è facile individuare delle differenze che caratterizzano l’essenza dei personaggi e li rendono diversi l’uno dall’altro. La donna per esempio mantiene sempre un tono lineare e quasi robotico, che ricorda quello di un comune assistente vocale; il cane invece si esprime in modo più irregolare, dalla sua voce a volte è possibile percepire il fastidio che gli recano alcune argomentazioni della donna e, inoltre, spesso si intromette nel discorso interrompendo la controparte. Questa fretta di rispondere, la smania di difendere le proprie posizioni ed essere pronti al contrattacco, rende l’animale più umano di quanto non sia la donna, che invece pare più simile ad un automa.
Le bocche vengono manovrate da mani sconosciute, che non fanno parte di quel mondo. Forse non sono creature senzienti, ed è come assistere al gioco solitario di un bambino. Di una creatura superiore nella sua innocenza e che ha già deciso ogni aspetto della storia dei suoi pupazzi. O magari sono loro a manovrare i rispettivi personaggi nel tentativo di sfruttare una comunicazione indiretta, per obbligarsi a parlare sinceramente e ad ascoltarsi l’un l’altro.
Catherine Biocca ci lascia sicuramente soddisfatti ma confusi. Bene così, forse è proprio questo il miglior risultato. Finiamo un po’ tutti col grattarci il capo, in una realtà che pare ci stia sfuggendo di mano.
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