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“Christo et Jeanne-Claude Paris!” è il titolo della mostra che dal 1° luglio al 19 ottobre 2020, il Centre Pompidou di Parigi dedica agli artisti Christo Javacheff (1935-2020) e Jeanne-Claude Denat de Guillebon (1935-2009).
Il progetto espositivo, che doveva essere inaugurato lo scorso marzo, ha come obiettivo quello di presentare il legame degli artisti con la Ville Lumière, anche con opere inedite che appartengono alla collezione privata dello stesso Christo. Nata come risultato di tre anni di lavori, la mostra culminerà nell’imballaggio dell’Arc de Triomphe, spostato a settembre-ottobre 2021. Il catalogo introdotto da Serge Lavigne e Bernard Blistène, è curato da Sophie Duplaix, Marion Guibert e Laure Martin-Poulet, che ha attivamente partecipato (1981-85) all’avventura dell’imballaggio del Pont-Neuf.
Il percorso espositivo
L’esposizione delle opere è divisa in tre parti che riflettono l’itinerario parigino dell’artista. La prima riguarda gli esordi, quando Christo, dalla Bulgaria, emigra ad ovest dopo gli studi accademici a Sofia e arriva a Parigi nel 1958, dove realizza i suoi primi imballaggi.
La seconda parte presenta un film inedito dei fratelli Maysles, nel quale è narrata la mitica avventura ei dieci anni di vicissitudini per riuscire ad impacchettare il Pont-Neuf, con riflessioni sull’elaborazione dell’opera, dalla nascita al suo compimento. Infine la presentazione, in quattro sale, delle opere che riguardano il rivestimento del Pont-Neuf e con alcune delle quali Christo e Jeanne-Claude hanno finanziato l’operazione, insieme alla vendita di altri lavori e un prestito bancario.
Visitando la prima parte risulta chiaro che, grazie all’esercizio del disegno fin dall’infanzia, convogliato nei suoi studi in un paese che impone il realismo socialista e non ha contatti con l’avanguardia del proprio tempo per ovvie ragioni ideologiche, Christo acquisisce una perizia nelle tecniche tradizionali, che poi si ritrova nelle opere preparatorie ai progetti in esterno.
Si scoprono inoltre legami con artisti che non sembravano ovvi. Mostrano senz’altro una vicinanza stilistica, inaspettata, con la pittura informale, soprattutto con Dubuffet, come nella serie dei Crateri, ma anche con Pollock e la pittura americana, vista nel 1959 grazie ad una mostra al Museo d’Arte Moderna. Senza dimenticare gli artisti del Nouveau Réalisme, principalmente Yves Klein, Jacques Villeglé e Raymond Hains che fra destini collettivi e individuali, convergenze, amicizie e dissensi lo affiancano. Un punto probabile di divergenza fra Christo e i Nouveaux Réalistes è il venir meno dell’artista bulgaro alla loro opposizione dichiarata all’arte astratta. Per di più Christo non poteva accettare la stessa etichetta di «realismo», che per ovvie ragioni lo riportava alle condizioni dell’arte nel suo paese d’origine.
Gli studi accademici gli servono a sopravvivere ritraendo la borghesia delle città, in particolare Vienna e Ginevra, nelle quali soggiornava. Guardando il percorso che si sviluppa quindi fra costrizione e libertà, si nota che questi componimenti strettamente impacchettati rappresentano in qualche modo un iter di vita: ricordi affogati in una memoria sfocata che tuttavia riaffiora, talvolta ingombra, talvolta è contenuta, conservano una vita anteriore o un presente da trasmettere. A volte irriconoscibili, spesso identificabili, ma solo in parte, quando se ne intravede la forma gli stessi oggetti evocano un dialogo continuo fra espressioni del viaggiare e storia artistica. Vale a dire come esempio il quadro esposto alla Galleria La Salita di Roma, «Chaussures empaquetées» (1963) sul quale sono legate con le corde attorno ad un telo di plastica scarpe e calze. Un tacco fuoriesce dalla cornice dorata tradizionale, così come quando nel traslocare in condizioni precarie, qualcosa esce dal mezzo di trasporto. Evocano il nomadismo caro all’artista una serie di utensili chiaramente indicativi: passeggini, carrelli da trasporto, da macchina, da supermercato, segnali stradali. Allorché Christo utilizza la plastica quasi trasparente, molte opere scelte per la mostra parigina sono imballate con un materiale opaco. Più in là una serie di vetrine confermano l’interesse costante dell’artista per una dualità irriducibile, fra il visibile e l’invisibile. provengono quasi tutte da Christo.
Ben documentata la prima installazione con il muro di bidoni di petrolio che sbarrano la rue Visconti nel Centro di Parigi, che vennero installati di notte per non avere problemi con la polizia. Una metafora della cortina di ferro dietro alla quale Christo è cresciuto, e soprattutto la denuncia della costruzione del «muro della vergogna» di Berlino, secondo le sue stesse parole, edificato proprio quell’anno, nel 1961, durante un soggiorno dell’artista in Germania.
Guardando il film presentato nella seconda sezione, uno storico dell’arte non può esimersi dal pensare alle innumerevoli vicende che nel corso dei secoli hanno ostacolato il portare a compimento un edificio, un quadro, una scultura. La stessa costruzione del Pont-Neuf durò trent’anni e generò molte polemiche, malgrado la volontà del re di Francia Enrico IV.
Christo era ben consapevole delle notevoli difficoltà da affrontare nel portare a termine un’opera pubblica che richiedeva un numero considerevole di autorizzazioni. Il documentario non riguarda solo l’intreccio delle vicissitudini attorno all’impacchettamento del Pont-Neuf. Integra l’attenzione ossessiva ad ogni particolare tecnico, grazie anche alla strategia impostata da Johannes Schaub fino alla sua realizzazione: ovvero un’organizzazione estremamente meticolosa che ha permesso di ultimare l’opera. Dalle questioni dedicate alla sicurezza all’inquadramento dei diversi gruppi professionali impegnati nel montaggio, carpentieri, battellieri, sommozzatori e perfino uno specialista del vento, senza il quale la solidità dell’installazione, quindi l’incolumità dei visitatori, sarebbe stata compromessa. Parallelamente si provvedeva all’adozione di un sistema di comunicazioni pluridirezionali attraverso conferenze, riunioni, incontri con l’élite parigina, all’epoca abbastanza retriva, il mondo educativo, più aperto ad eccezione delle «grandes écoles» e quello dei diversi ambienti di lavoro del quartiere, impiegati, operari, magazzinieri, clienti della Samaritaine provenienti dalla Banlieue, abitanti agiati della Place Dauphine, che affiancano i rendez-vous puntuali e edificanti con i responsabili politici.
Durante 15 giorni, dal 22 settembre al 7 ottobre 1985, il progetto lanciato dieci anni prima di impacchettare il Pont-Neuf è finalmente realizzato: 40.000 mq di tessuto color sabbia scelto dall’artista, in armonia con la pietra dell’Ile-de-France, 13.000 metri di corde e 12 tonnellate di cavi in acciaio, centinaie di operatori appartenenti ad una pluralità di professioni. È l’itinerario ricostruito nelle quattro sale dedicate alle opere di Christo attorno al Pont-Neuf. Non ci sono solo schizzi, disegni, collages, bozzetti e fotografie, studi storici e tecnici, documenti, ma anche le attrezzature adoperate per l’installazione: cordame, macchinari di ogni sorta. Tale da mostrare la complessità e l’alta competenza organizzativa dell’operazione.
Scelto dopo aver pensato al Ponte Alexandre III, risutato troppo difficile da imballare, Christo decise di realizzare un’installazione “temporanea” inserendosi nel tessuto urbano e storico di Parigi, con una tela resistente dall’aspetto nobile come la seta, ma anche integrandosi nella storia figurativa che da Jacques Callot a Stefano Della Bella, da Renoir a Pissarro, Marquet e Vlaminck, hanno inciso e dipinto il Pont-Neuf, senza dimenticare, lo scrive Christo, le ricerche di Monet sull’acqua. L’aderenza stretta con le forme antiche del Ponte conferisce un’eleganza che fa pensare, anche se lontamente, agli abiti delle dame nella storia della pittura. Sia i lampadari, che Christo ha voluto ricoprire con le proprie mani, che le arcate più che impacchettati, sembrano vestiti con un’attenzione particolare allo spieghettato, dall’aspetto originale, che differenzia quello del Pont-Neuf dagli altri involucri. Evocano lo stile dei tendaggi con drapé e festoni nelle case borghesi e negli ambienti dedicati alla rappresentanza. Risultato dalla convergenza cara a Christo fra pittura, scultura e architettura, il rivestimento del più vecchio ponte parigino non ha l’aspetto della fragilità, diversamente dagli altri imballaggi insieme monumentali e fragili.
A Roma, Nel 1967 Christo aveva progettato di rivestire il Ponte Sant’Angelo. Non lo farà, ma nel 1974 avvolge durante quaranta giorni Il Muro Romano di Porta Pinciana. Finanziato con la vendita degli studi preparatori e senza sponsorizzazioni, Graziella Lonardi Buontempo esprimeva in proposito «un solo rammarico: non sono rimasti a Roma i disegni preparatori (…) Lo Stato non volle intervenire ».
A quando una mostra sui legami di Christo con Roma e l’Italia? Ricordo che, nel 2016, sul treno che portava da Brescia al Lago di Iseo, dove l’artista aveva disteso la sua installazione, The floating Piers, c’era una folla immensa, fatta di persone di tutte le età e condizioni, entusiasta.