“Chrysalis: The Butterfly Dream”, caleidoscopica mostra in corso presso gli spazi del Centre d’Art Contemporain Genève, inquadra la metamorfosi come condizione identitaria, da cui partire per immaginare la ricostruzione di nuovi sistemi di autorappresentazione sotto il segno della fluidità e dell’indefinizione. La complessa architettura critica, ideata dal curatore Andrea Bellini con la consulenza curatoriale di Sara de Chiara e Sarah Lombardi, si presenta come un reticolo interconnesso di opere, personaggi, segni e narrazioni che travalicano una possibile linearità cronologica e disciplinare. Il sostanziale rifiuto di qualsivoglia specializzazione, riposizionata come un’illusoria forzatura storica, apre la prospettiva di una continuità osmotica di un’identità che si afferma nello scambio continuo con un altro da sé, o della ridefinizione stessa del sé come entità non-situata e non-determinata. Un sé che abita l’instabilità e che si sostanzia nei passaggi di stato ai quali costantemente la mostra allude, siano essi spirituali, materici, di genere o di specie.
Tra le diverse letture che potrebbero diramarsi da una mostra tanto articolata, appare particolarmente significativa quella che guarda alla metamorfosi come massimo punto di crisi del linguaggio, contrastato come forma convenzionale e dogmatica di specializzazione, in quanto tale intrinsecamente violenta. La decostruzione del linguaggio diviene infatti premessa necessaria per consentire una sintonizzazione con altre esistenze – animali, naturali, tecnologiche – e con le difformità dei loro sistemi espressivi. Non è un caso che Chrysalis si collochi in dialogo con la mostra “Scrivere Disegnando”, presentata al Centre d’Art Contemporain Genève nel 2020, in collaborazione con la Collection de l’Art Brut di Losanna, esperienza curatoriale in cui la decostruzione della linearità del linguaggio avveniva a partire dal riconoscimento della sua intima relazione con il segno, o piuttosto con il disegno. La continuità con questo precedente è certamente affermata nella mostra attualmente in corso grazie alla presenza diffusa di opere provenienti dall’importante collezione fondata da Jean Dubuffet, tra cui si ricordano i preziosi reticoli segnici di Guo Fengyi e Ataa Oko.
Tuttavia, allo stesso tempo, la continuità tra queste esperienze critiche sembra trovare una delle sue chiavi di volta più esplicite nel video If I had the words to tell you we wouldn’t be here now (2019) di Sin Wai Kin. Un’opera che denuncia l’obsolescenza del linguaggio nella lotta per la definizione del sé, rappresentato come entità inafferrabile che rifugge l’ambizione muscolare della verbalità. L’azione immaginativa dell’artista si adopera nell’identificare un nuovo sistema di comunicazione possibile, che avviene tramite la sostituzione del sistema alfabetico con quello melodico. Il video svela infatti una successione di rivoli sonori che si sostituiscono alla specificità del linguaggio parlato, quasi degli scarabocchi che portano alla decomposizione della verbalità verso una intrinseca dimensione musicale e segnica.
Questa non-premeditazione e queerness del linguaggio-testo-suono echeggia inoltre in diverse delle opere chiave presenti in mostra, come nella trasformatività sonora di Blue Moon (2022) di Marianna Simnett. Anche il corpo, evidentemente protagonista della mostra come principale variabile di trasformazione, sembra giocare un ruolo nel riposizionamento e nell’ibridazione del verbo in una nuova organicità, come espresso in THE POWER OF THOSE WHO PRAY (2021) di Ventura Profana – in combinazione con homing instinct #3 (2021) [“Always in the Shade / Always Together”] di Jota Mombaça. Qui, il linguaggio si fonde al corpo invocando una resistenza collettiva nella forma del tatuaggio, elemento che ricorre nel percorso espositivo con le stampe fotografiche dipinte di Plinio Martelli.
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