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Nella sede di Zouz della Galleria Monica De Cardenas dal 25 luglio è in corso la personale di Claudia Losi (1971, Piacenza) “Come le mani ricordano”, a cura di Marina Dacci, che presenta lavori realizzati negli ultimi quattro anni in ferro, bronzo, legno, seta e ceramica (fino al 29 agosto).
«La mostra di Claudia Losi parla di partenze e approdi, di transiti sulla terra: un pellegrinaggio immaginario e immaginato tra la storia dell’uomo e le vicende intime dell’artista. Ristabilire un legame con la terra, in questo ecosistema così fragile, suggerisce una differente idea di identità che origina dal sentirsi legati alle altre forme di vita. Le sue opere sono affabulazioni sull’origine e sulla trasformazione ciclica in natura, “solidificazioni” di momenti di vita tra permanenza e impermanenza che si svelano agli occhi del visitatore in passeggiata silenziosa fra le piccole stazioni dove è possibile soffermarsi e riflettere», si legge nel comunicato stampa.
I prossimi progetti di Claudia Losi
Domani, 6 agosto, al Museo Carlo Zauli, a Faenza, Claudia Losi inaugurerà un’altra personale, Whalebone Arch, a cura di Matteo Zauli, progetto tra i vincitori dell’Exhibit Program del MiBACT, con opere che saranno poi protagoniste anche di Boccate d’Arte, un progetto d’arte contemporanea in Puglia, realizzato da Fondazione Elpis in collaborazione con Galleria Continua e seguito sul territorio dall’associazione Ramdom, che inaugurerà, in tutte le regioni italiane, il 12-13 settembre.
Claudia Losi ci ha raccontato la mostra alla Galleria Monica De Cardenas.
Come è nata la mostra?
«”Come le mani ricordano” è il titolo scelto per mostrare lavori nati nel corso degli ultimi quattro anni. Per alcuni di loro ho impiegato, appunto, anni per portarli a termine. Un percorso articolato, con dislivelli, deviazioni e qualche cul de sac, in particolare durante i mesi di chiusura, la scorsa primavera. Non ero affatto sicura ci saremmo riusciti.
Eppure le mani e le parole hanno continuato ad agire e a muoversi in una profondità più o meno consapevole e grazie allo scambio, prima di tutto amicale, con Marina Dacci, che ha curato la mostra (e con la quale abbiamo realizzato per la galleria un piccolo libro di testi/lettera e disegni), piano piano tutto ha preso una sua voce. La mostra è l’intreccio di queste voci. Parlo al plurale, quindi, quando mi si chiede di come è nato questo progetto espositivo perché è stato, nel suo complesso, il lavoro di una collettività».
Che rapporto instaurano le opere con lo spazio della galleria?
«Lo spazio della galleria di Zuoz della Galleria Monica De Cardenas è un’antica casa contadina che ha subito diversi rimaneggiamenti, i più importanti dopo incendi distruttivi. L’ultima sistemazione ha tenuto conto della sua articolata stratificazione storica e spaziale. Altezze diverse, scale, stanze: un corpo complesso. Avevo in testa l’addentrarsi in un bosco per l’allestimento. Lo sguardo passa da un dettaglio all’altro, da un’opera all’altra, creando relazioni di cui il fruitore diventava il teatro/scena itinerante e che ricompone in base alla propria esperienza. Una forma ricorrente nella mostra è il cerchio, come sfera, occhio, vortice, foro, coppella. L’altra è lamano che accoglie, raccoglie, trattiene e nasconde».
Che aspetti della tua ricerca emergono, in particolare, dalle opere in mostra?
«In questo allestimento trovo molti dei temi presenti nella mia ricerca: il lavoro manuale e collettivo; la condivisione di competenze; il modo in cui memoria, immaginazione ed esperienza costruiscono la percezione che abbiamo del tempo e dello spazio; il rapporto profondo con l’animalità e gli archetipi senza nome che abitano ancora in noi.
In particolare lo vedo per l’opera più recente, nata come risposta “naturale” allo smarrimento durante la scorsa primavera. Ho modellato una cinquantina di Amuleti in terraglia bianca (nel video qui sotto), cotti e tinti all’apertura dei confini (grazie ad Aida Bertozzi). Quasi ogni giorno nasceva una combinazione tra un animale e una figura umana nell’atto di urlare. Nei primi pezzi realizzati, la bocca era spalancata per farsi man mano più silenziosa fino a scomparire. Mi sarebbe piaciuto metterli in viaggio di tasca in tasca, queste forme “d’energia buona”, come li nomina Dacci. Il pensiero corre alla scatola di fiammiferi in cui Alberto Giacometti raccolse, durante la guerra, privo del suo studio, alcune sue sculture, un “umanità infiammabile” come un piccolo museo da portare in tasca.
“La lingua di Animali e Piante,
dove per ogni specie
c’è il vocabolario adatto.
Anche un semplice buongiorno
scambiato con un pesce,
àncora alla vita
te, il pesce, chiunque”.
W. Szymborska, in Appello allo yeti, (grazie a M.R.)».
Ci puoi anticipare qualche mostra a cui parteciperai nei prossimi mesi?
«Il prossimo 6 agosto inaugura presso il Museo Carlo Zauli, a Faenza, Whalebone Arch, a cura di Matteo Zauli, progetto tra i vincitori dell’Exhibit Program del MiBACT: due forme grandi in terra dell’Impruneta che riproducono le mascelle di una balenottera. Issate e assicurate a una struttura portante, riproducono un arco, una volta d’ingresso. Saranno poi soggetto di azioni performative durante il periodo di permanenza in Romagna per poi trasferirsi a Presicce, in Salento, per Boccate d’Arte: progetto d’arte contemporanea, diffuso e corale, realizzato da Fondazione Elpis in collaborazione con Galleria Continua e seguito sul territorio dall’associazione Ramdom, che inaugurerà, in tutte le regioni italiane, il 12-13 settembre».