Dove, se non negli spazi di Prometeo Gallery, Zehra Doğan e Matteo Mauro potevano incontrarsi attraverso la lingua dell’arte che i due artisti condividono? La galleria di Ida Pisani da sempre, infatti, sfata le difficoltà e le apparenze, schierandosi – anche radicalmente – nella difesa della dignità della persona. Closed Eyes Can See, che proprio Ida Pisani ha pensato come un ponte tra i due artisti, è una nuova conferma dell’impegno della galleria ad abbattere i muri, anche in un periodo, come quello attuale, carico di tensioni e di divisioni.
Rischa Paterlini e Domenico De Chirico, autori del testo che accompagna la mostra, scelgono di restituire queste intenzioni attraverso le parole che Dante Alighieri scrisse nel Paradiso: «S’io m’intuassi come tu t’immii». Così, il sommo poeta ci aprivano, dicono «alla possibilità di una fusione e comprensione che trascende il visibile, un “intuarsi” che permette di percepire l’altro e immergersi nel suo destino, come in un movimento di profonda immedesimazione. È proprio questo slancio che anima Closed Eyes Can See» e, proseguono, affermando che «La Prometeo Gallery diventa così il luogo di un incontro che va oltre le parole, uno spazio in cui si realizza quella fusione dei sensi che Dante evoca, uno “spellamento” che, come suggerisce il poeta e scrittore Davide Rondoni (1964-), ci fa uscire da noi stessi per entrare in una nuova visione».
Cosa significa uscire da noi stessi per Doğan? E Mauro, come si incontrano i loro sguardi e i loro pensieri?
Per Zehra Doğan è un’esperienza tangibile e dolorosa, un attraversamento che l’ha condotta, attraverso il carcere e l’esilio, a scoprire nuove dimensioni di resistenza e di espressione. Nelle sue opere, dove capelli, sangue mestruale e giornali diventano materia viva, il corpo si trasforma in un archivio di memoria e denuncia, simile al tesoro della memoria che Dante invoca. «Lo Stato turco ha annullato il mio passaporto. Ora sono una rifugiata in Europa, bloccata a Berlino da un anno, senza diritto di viaggiare. Ogni passo è intrappolato nel filo spinato di un pianeta diviso dai confini, come se fossi una criminale», scrive Zehra rivelando un senso di confinamento che va oltre le barriere fisiche. La sua arte è un grido muto, e nelle figure immerse in un silenzio carico di memoria, come il volto dipinto su giornali, si avverte il peso della censura e della perdita di identità. Ogni strato di carta sembra soffocare una parte di sé: «Mi sento come se tutti gli edifici distrutti della mia città fossero sopra di me» afferma, evocando un fardello che non è solo materiale ma anche spirituale, un naufragio interiore colmo di solitudine e resistenza.
Nelle opere in mostra gli intrecci di capelli non sono solo elementi estetici, ma fili di memoria e simboli di identità e radici che la collegano alle storie delle donne che l’hanno sostenuta. «Ogni volta che tocco questi capelli, sento come se qualcuno mi tenesse per mano», confida, indicando la comunione e forza che queste connessioni invisibili le trasmettono. È un rito che trasforma la rabbia in meditazione, un intarsio che custodisce una memoria vivida anche nel limite dell’oblio. Anche l’uso del sangue mestruale e di altri materiali organici sfida i tabù, rivendicando il corpo come territorio di resistenza e autenticità. Il sangue diventa simbolo di vita e potere, una femminilità che sfida. Accanto a questa tensione espressiva e materiale, si colloca l’opera di Matteo Mauro, che si manifesta a fasi alterne seppur radicalmente intrecciate attraverso un duplice senso di potenza: uno fortemente materico, frutto di una maestria scultorea, di una certa conoscenza della statuaria nonché di un’indubbia abilità tecnica, perfettamente in grado di plasmare cospicue densità; l’altro, perennemente fluente oltre il tangibile, sonda strati più metafisici, i quali, tuttavia, sono il risultato di un incedere della materia verso lo spazio circostante, un compiacimento del suo stesso movimento.
La dualità costituisce un aspetto fondante dell’intero lavoro di Matteo Mauro, sempre oscillante tra intricati binomi come quello che prevede la connivenza tra figurativo e non figurativo, tra assenza e presenza, vita e morte, distruzione e rinascita e poi ancora tra una constatazione disincantata e la più fiduciosa delle speranze. Qui, gli occhi possono vedere persino non vedendo. La sua scultura Demiurge si pone dentro e fuori la forma, ininterrottamente sospesa nell’atto del divenire senza mai essere una o l’altra cosa, tronfia, soave e monca energia alla ricerca incessante dell’affinità elettiva. To be or not to be affronta invece la complessità della condizione umana e dell’essere scaraventati nel mondo, nonché la separazione tra l’essere e il non essere, concependo quest’ultimo come un oblio percepibile ma inimmaginabile; infine, Atom for the war, opera emblematica della complessità del reale, crocevia di istinti al contempo propositivi e distruttivi, ci invita sensibilmente a concepire la forza della materia come ciò che probabilmente potrà salvarci dall’auto-distruzione.
«Come osserva il neuroscienziato Vittorio Gallese (1959-), questa esperienza di “intuarsi” è un modo per sentire l’altro dall’interno senza perdersi in esso, riconoscendo in lui una parte della propria esperienza vitale. Nell’arte di Zehra Doğan e Matteo Mauro, questa empatia diventa un linguaggio che oltrepassa il visibile, invitando chi osserva a entrare in un dialogo silenzioso e universale, in cui il personale si dissolve in una percezione condivisa dell’esistenza», concludono Paterlini e De Chirico.
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