“Noutoupatou” è una parola creola haitiana che significa “ovunque” o “dappertutto”, un termine che attraversa le ferite del tempo, portando con sé i frammenti di un’identità dispersa, mobile, spezzata, eppure tenacemente viva. Spazi, storie e traumi tessono così un titolo che invita ad addentrarsi nelle profondità di un mondo in movimento per osservare, ascoltare e rigenerare.
Ispirandosi alla poetica del Tout-monde di Edouard Glissant, Noutoupatou ci ricorda che ogni differenza, cicatrice o perdita è parte di un racconto più grande: un mare di relazioni infinite che collega il passato al presente. Aimé Césaire ci insegna che persino nelle lacerazioni più profonde lasciate dal colonialismo si annida il seme di una rinascita.
Questa consapevolezza risuona nei suggestivi spazi di A plus AGallery come un canto doloroso e viscerale. Le opere di Samuel Gelas, Flavio Delice e Shamika Germain trasformano le ferite della storia in un’esperienza emotiva totalizzante. Raccontano dell’identità creola come un equilibrio fragile tra memoria e trasformazione, portando lo spettatore a confrontarsi con la sofferenza ereditata e con le possibilità di un rinnovamento collettivo.
La curatela di Paola Lavra si erge come un atto di profonda cura, capace di accogliere e restituire il dolore con estrema premura e delicatezza. L’allestimento amplifica questa tensione emotiva, guidando lo spettatore attraverso un percorso dove la storia coloniale si manifesta in carne, respiro e silenzi assordanti. Ogni opera diventa un frammento di un ricordo interrotto che grida l’urgenza di essere riconosciuto. Tra biografie intime e riflessioni universali, il visitatore si muove in una narrazione che si apre e si richiude, come una piaga mai rimarginata.
Le opere di Samuel Gelas, che introducono e chiudono la mostra, si impongono come un racconto collettivo e al contempo primitivo. Attraverso il suo bestiario creolo, Gelas dona vita a figure ibride, sospese tra fiaba e protesta sociale, che ribaltano con violenza poetica i valori imposti dalla colonizzazione. Queste creature, che riecheggiano le narrazioni di Esopo e La Fontaine, sfidano l’ordine stabilito, evocando una rivoluzione silenziosa ma inarrestabile. Ogni tela sembra clamare il bisogno di ridefinire i confini, di trasformare il disordine in un’identità autentica e condivisa.
In dialogo con Gelas, le opere d’arte di Flavio Delice introducono un linguaggio intimo e sofferto. Ogni nome inciso, ogni immagine nelle cartoline rappresenta un filo che connette l’artista alla sua terra d’origine, Haiti, una patria mai vissuta ma profondamente sognata. Nella sala successiva, le sue tele e sculture si espandono in una dimensione più ampia: mappe immaginarie e case precarie, costruite con materiali di recupero, incarnano la fragilità di una popolazione costretta a ricostruire sé stessa sotto il peso opprimente della storia. In questi lavori si percepisce il respiro affannoso di chi vive sulla soglia della resilienza, in un equilibrio tra memoria e distruzione.
Proseguendo verso il cuore della galleria, l’interstizio accoglie l’opera in vetro di Murano di Shamika Germain, simbolo di un seno materno che si rifrange e si frantuma, somatizzando la violenza coloniale che ha strappato la maternità e la nutrizione ai suoi figli. L’infanzia dell’artista, segnata dall’abbandono e dalla perdita, si traduce in opere che oscillano tra vulnerabilità e resistenza. Le sue sculture raccontano di anime in bilico, sospesetra caduta e speranza. Una scultura, posta in cima alle scale, poggia precaria su un’apertura, mentre un’altra si protende verso un apparente spiraglio di luce, instabile tra abisso e resurrezione, tra il ricordo del trauma e la possibilità di una guarigione.
Al piano superiore, le sue culle-bare, delicate e brutali metafore di un nido negato, sono avvolte dai merletti di Burano lievemente bruciati, come se ogni filo avesse assorbito il dolore delle generazioni. Queste opere sono sudari di un passato che non può essere sepolto, come un corpo lacerato che, pur ricucito, non smette di sanguinare. Germain trasforma la cicatrice in arte, che, nel suo straziante sussurro, cura.
Le tele di Gelas chiudono il percorso dando voce al tema della migrazione, dove figure sommerse in un mondo che le eclissa emergono con forza, reclamando il diritto di esistere e di essere viste. I migranti di Gelas non sono fantasmi, ma simboli potenti di una lotta collettiva per la dignità. Ogni sagoma ibrida, densa di simbolismo, celebra l’infanzia come spazio di incontro, un punto di partenza da cui ogni differenza può trasformarsi in relazione.
Noutoupatou si insinua sotto la pelle, vibra nel corpo dello spettatore radicando la sua essenza. Ogni opera, spazio, dettaglio custodisce il peso insostenibile della storia coloniale e delle sue conseguenze. Eppure, tra le macerie, emerge una resilienza poetica. L’arte diventa antidoto, riscatto, palingenesi. Questa mostra invita a trasformare il dolore in speranza, per costruire nuove trame e immaginare un futuro dove l’arte, come nelle mani di Shamika, Flavio e Samuel, ci insegna a salvarci.
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