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La seconda notte nel bosco, Hänsel e Gretel smarriscono la strada di casa. Sappiamo tutti come va a finire: due bambini abbandonati dai genitori, persi nella foresta, con le briciole di pane — quel piano geniale e disperato — divorate dagli animali. Ma c’è qualcosa di più in questo racconto, un certo tipo di nostalgia: quella per una casa che non ci appartiene più, una casa che è stata, in primo luogo, la fonte del nostro smarrimento e dei nostri traumi.
La piccola esposizione A Breadcrumb Trail, a cura di Manuela Lietti e ospitata negli spazi di Capsule Venice, riprende proprio questo tentativo di orientarsi nella notte, di ritrovare una dimensione familiare nel mezzo di un paesaggio sconosciuto. Lo fa, in particolare, attraverso sette opere del giovane artista italo-tedesco Luca Campestri (Firenze, 1999), che traduce così in linguaggio visivo la complessità di questo percorso nell’ignoto.
Il corpus di lavori proposto da Campestri per l’occasione è un susseguirsi di creature boschive: cerbiatti, gufi dal piumaggio spumoso e persino un cinghiale. Le fotografie, scattate tra il 2017 e il 2018 nell’Appennino tosco-romagnolo, catturano frammenti della vita di questi animali, successivamente trasferiti dall’artista su supporti inusuali, come velluto a pelo lungo e tessuti catarifrangenti.
Esempio della stampa su velluto è il lavoro Like velvety scars (2024), opera che più si distingue in mostra e che rappresenta un cerbiatto tra un reticolato di rametti e foglie. Si tratta di un’immagine soffice, tattile, in cui le lunghe fibre del tessuto sono orientate in modo ben preciso, per dare l’impressione che la superficie sia appena stata sfiorata: è la visione di una carezza; la permanenza di un contatto.
The dreamer slept but did not dream (2024) è invece un lavoro su tessuto catarifrangente, che si attiva grazie all’interazione dello spettatore: basta muoversi attorno all’opera o illuminare la superficie con il flash del proprio cellulare per dar vita ad una nuova scena. Il soggetto, un gufo immortalato da una fotocamera a infrarossi, fa poi riferimento all’universo spiritico e folkloristico: la parola “gufo”, infatti, condivide la proprio origine etimologica con il termine “strega”, creatura ambigua e mutevole.
Questo riferimento introduce una dimensione quasi inquietante nel lavoro di Campestri, le cui immagini, effettivamente, sembrano evocare fotogrammi di un film horror found footage —ma uno che è anche stranamente bello, quasi lirico.
C’è poi un legame evidente con l’idea di “hauntology” elaborata da Jacques Derrida, concetto che si riferisce a quelle presenze che non esistono più o che devono ancora esistere, ma i cui effetti sono riscontrabili nel presente. Gli spettri di Derrida, come le figure di Campestri, sono fantasmi di «ciò che non è né presente, né assente, né morto». I suoi animali, le tracce di un tocco sul velluto e la stessa luce —indispensabile per creare l’immagine ma mai visibile direttamente— sono tutti elementi sospesi tra ciò che è e ciò che non è.
Confrontarsi con le opere di Campestri, dunque, ci trasporta in una dimensione altra, simile a quell’istante tra sonno e veglia in cui le immagini perdono nitidezza e diventano solo tracce sfocate: evocative, luminose, ma comunque non sufficienti a condurci a casa. Perché forse, come Hänsel e Gretel, non è lì che dobbiamo tornare.