L’impatto è forte e immediato, parimenti per chi il MASI Lugano è abituato a frequentarlo e per chi invece raggiunge per la prima volta la sala ipogea con l’occasione di Streams of Spleen a cura di Francesca Benini e aperta fino al 18 agosto: Shahryhar Nashat è intervenuto sullo spazio stravolgendone l’architettura a partire dal totale rivestimento del pavimento – originariamente in parquet – con piastrelle viniliche di color rosa chiaro, prodotte in occasione della mostra e destinate a riciclo futuro, che lui ha disegnato collaborando con l’azienda di produzione Forbo Floorinf System.
Queste piastrelle rivestono, oltre che il pavimento, anche tutte le pareti esterne del volume che l’artista ha costruito al centro della sala alterando il tono delle luci e infrangendo la neutralità dello spazio. Di fatto Nashat è intervenuto, modificandola, sulla percezione di qualunque oggetto sia esposto per superare la comprensione razionale e coinvolgere, anche con la complicità del suono diffuso nell’ambiente, la parte più intuitiva e involontaria del nostro sentire a proposito dell’essere corpo, carne, materia.
È evidente fin dal titolo – Streams può essere un flusso, anche organico, o un trasferimento di dati; mentre Spleen è la milza o, derivandolo dalla lezione di Charles Baudelaire, uno stato d’animo caratterizzato da una profonda malinconia – e ne è conferma Hustler_20.JPEG, un contenitore in polietilene di urina, collocato in principio del percorso espositivo, appena prima di accedere al cuore, ovvero al volume centrale, della mostra: Nashat sembra pensare al corpo come contingenza della della vita e della morte. Anche Jean-Luc Nancy una volta riscrisse il corpo come come assemblaggio di elementi eterocliti: «non c’è una totalità del corpo. Ci sono parti, zone, frammenti». Ecco, quelle parti, quei frammenti, sono gli scarti i fluidi, i residui organici che l’artista usa trattare al pari di materiali artistici – come la resina, l’olio, il marmo – riflettendo sulla possibilità di prolungare l’esistenza del corpo, che in quanto carne è destinato a perire nel tempo e nello spazio, seppur soltanto come rappresentazione artistica.
For Left e For Right, che ricordano concettualmente due divisori e visivamente due cordoni ombelicali, sono realizzati in acciaio, resina epossidica e pittura acrilica e guidano lo spettatore verso il volume al centro della sala. Il soffitto è basso, l’illuminazione è bianca, fredda, diversa da quella esterna più soffusa, e concorre all’impressione di un’area sterilizzata, come una sala operatoria. Alle pareti, rispettivamente tre a sinistra e tre a destra, sono sono appese le sculture in resina polimerica sintetica e pittura a olio della serie Bone Out. Sono molto simili a pezzi di carne, a carcasse di animali, che l’occhio umano guarda, ora attratto ora perturbato – il perturbante si sa, «è quella sorta di spaventoso che risale a quanto ci è noto da lungo tempo, a ciò che ci è familiare». Qual è l’interesse di Nashat, che dal 2019 lavora a queste sculture? La vitalità del corpo si, la sua sopravvivenza nella forma di una rappresentazione artistica, certo. Ma è soprattutto la deperibilità del corpo, a cui fa chiaro riferimento con quegli interventi site-specific al soffitto (Senza titolo) che ha realizzato servendosi di resina, polvere, unghie e capelli.
Il rimando al corpo può essere così evidente, tale che l’occhio lo riconosca tra desiderio e disgusto, o può essere più sottile, come nel caso delle tre sculture in fibra di vetro disposte a terra, sempre all’interno del volume centrale, Boyfrend_15.JPEG, Boyfrend_14.JPEG e Boyfrend_16.JPEG. La loro presenza, la loro fisicità, è forte, la loro estetica è minimale, Nashat infatti sembra fondere la carnalità al minimalismo americano e in qualche modo dare la sensazione di un tessuto muscolare o scheletrico. Vivo? Morto? Di certo questo corpo ha perso la sua unità ed è stato riscritto come materia vulnerabile e fratta che sopravvive ritrovando un punto di articolazione, una sponda, solo grazie al margine, al confine, al bordo, al limite tracciato da un altro corpo: quello che si muove intorno.
Tornando all’idea che il corpo si riscrive come materia vulnerabile e fratta, nella dimensione di Streams of Spleen, potremmo anche, e a ragione, parlare di frontiera tra dentro e fuori perché, di fatto, Nashat ha previsto un dentro e un fuori dal volume dove, in ambo, i lati, due immagini e due sculture insistono ad attrarre e repellere al contempo. Le immagini, Brother_03.JPEG e Brother_08.JPEG, sono inserite su un rilievo delle pareti del volume e sono ricoperte di una gelatina acrilica che potenzia la parvenza organica. Le sculture, Hustler_23.JPEG e Hustler_24.JPEG, sono in marmo – che è sempre stato utilizzato nella rappresentazione scultorea del corpo umano – Rosa Portogallo, cristallino a grana fine, dal disegno delicato e di colore rosa pallido con sfumature marrone chiaro che interferiscono con la carnalità che è oggetto espositivo.
In fondo alla sala, sul retro esterno del volume centrale, il cuore pulsante della mostra che dà ritmo al percorso espositivo con un suono che si ripete – ora prolungato, lamentoso e ululato, ora techno – si mostra, in loop, su una grande parete LED. È il video Warnings e ha più di un significato che ricostruiamo a partire dal riconoscere che tutti i titoli delle opere in mostra contengono quella che, generalmente, è l’estensione di un file: JPEG. Nashat è solito modellare digitalmente le sue immagini e le sue forme per trasporle successivamente in forma materiale e concreta. Ma c’è di più, perché tutti i corpi esposti ammiccano alla tecnologia in quanto strumento di possibile prolungamento di un’esistenza, nella forma del pixel, dell’immagine digitale, del regno dell’artificiale, quell’intelligenza artificiale che Nashat usa, e non rinnega, svelando quanto l’uomo oggi possa in essa sperare o essa temere.
Warnings sembra la controparte viva della parte inanimata, decadente (forse in decomposizione) interna al volume. Il protagonista è un lupo – vitale e vigoroso, spesso per miti e tradizioni accostato all’uomo – ora vero, che dalla montagna scende a valle per congiungersi al branco, poi disegnato digitalmente e infine creato con l’intelligenza artificiale. I passaggi di prospettiva sono acuiti dal cambiamento sonoro: l’ululato diventa lamento, il lamento diventa musica elettronica scandita da battiti accelerati che rafforzano un senso di inquietudine che culmina in un monito, poeticamente politico, anche se Nashat politico non vuole essere: «Nobody leaves home without being wounded», ovvero «Nessuno lascia la casa senza esserne ferito». Forse Shahryar Nashat non poteva scegliere altre sei parole per meglio esprimere, nell’intimo e nel profondo, come il corpo si singolarizzi al contatto con altri corpi. Qui infatti il corpo è quel che accade al corpo perché, se è vero che non possiamo dire cosa sia un corpo, possiamo però dire attraverso quali eventi si dia, come vivere, deperire o sopravvivere nell’eterna dualità fisica ed eterea che condiziona la nostra esistenza.
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Ritengo molto interessante l'approccio di Nashat. Per molto tempo in filosofia il corpo è sttao considerato come la parte corruttibile e come un peso. Oggi ad esempio, alcuni filoni dell'estetica contemporanea hanno riportato l'attenzione su di esso e questo secondo me è un bene. Osservando queste foto la sensazione è quasi di disgusto e forse perche epr molto tempo nell'arteabbiamo osservato il corpo in termini di esteriorità cioè rappresentato anche secondo canoni/regole e su quello si fondava la bellezza. Ma qui si fa l'esperienza di un "dentro" che non è possibile vedere direttamente se non tramite radiografie ecc ed esperire nella quotidianità. Mi pare che si sottolinei proprio l'intimità del corpo come tale, quindi una visione positiva del corpo, e non soltanto l'intimità del proprio io come istanza fenomenologicia. Ringrazio l'autrice per questo articolo. Saluti