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Il lavoro di Cristiana de Marchi si muove intorno alla riflessione del termine limite, che fonda il suo significato etimologico in due sostantivi di radice latina: «limes, limitis», che assume un’accezione negativa con significato di confine; e «limen, liminis» che assume invece un’accezione positiva con significato di soglia, aprendo verso nuovi orizzonti.
Nella mostra LIMES LIMITIS, a cura di Vera Agosti e ora in corso da Manuel Zoia Gallery, de Marchi esplora temi sociali e politici come memoria, identità, confini contestati e nazionalismi contemporanei istigando i processi che richiamano l’attenzione sugli strumenti e sulle strutture del potere. Scrive, in proposito, la curatrice: «La situazione geopolitica del mondo continua ad essere esplosiva, tra conflitti caldi e freddi, tensioni e rivalità che minano la stabilità dello scacchiere economico e politico internazionale. Per gli artisti contemporanei può essere una missione dire la propria su argomenti così coinvolgenti per l’umanità intera. Cristiana de Marchi è sempre stata interessata alle questioni etiche e alle tematiche socio e geopolitiche. Per lei, dedita inizialmente al volontariato e all’attivismo, costituisce una forma di allerta».
Con il tessuto, mezzo privilegiato a cui si accompagnano ricami, video e performance, Cristiana de Marchi si concentra sul ruolo di concetti quali Religione e Nazione, intesi come veicoli per riflessioni personali sui temi identitari, che racchiudono al loro interno i nodi fondamentali della sua indagine, condivisa con l’essere umano.
Nel percorso espositivo incontriamo Yalla, un ricamo realizzato con colori pieni di energia, che riprende la parola araba che significa «Andiamo, su, forza, coraggio!». È un’espressione molto usata nel mondo arabo, è un richiamo all’azione con una funzione propositiva ed esortativa. Similmente, su degli scacciamosche, anche il lavoro We hope (Speriamo) allude a un intercalare comunemente condiviso che designa la speranza in un futuro migliore, verso il quale però si nutrono forti dubbi.
È evidente, opera dopo opera, l’importanza che de Marchi dà alla parola, non solo nella sua semplice valenza semantica ma come parte integrante del lavoro, elemento fisicamente presente e tangibile grazie all’uso del tessuto. La parola, fisicamente amplificata o isolata per evidenziarne l’individualità e suggerirne il potere semantico, è a tutti gli effetti un veicolo di messaggi, profezie ed epifanie per lo spettatore.
In mostra sono presentate anche opere come Atlante delle utopie, Mare nostrum – indicante i confini marittimi del Mediterraneo – Il Canto di Nausicaa, che ricorda la necessità dell’ospitalità e dell’accoglienza come base della civiltà, Finnish neutrality/Finish neutrality, concepita quando la Finlandia stava per entrare nella Nato e si temeva per lo scoppio della Terza Guerra Mondiale, e Constellations, in cui i percorsi dei migranti sono ricamati con filo dorato su carta scura come la notte. Viaggi preziosi attraverso le insidie e l’oscurità per brillare di nuova vita in luoghi più fortunati, e ancora Small talk e Commemorative stamps.
Nel percorso, ben equilibrato nell’accostamento di opere create in tempi e circostanze differenti in un’assonanza di significati e corrispondenze, trovano spazio anche iideo delle bandiere statunitense e russa montati su un motorino che le fa girare velocemente su se stesse fino a svanire nel bianco, il trittico sulle religioni ebraiche, Untitled — secondo la volontà di equipararle e porle sullo stesso piano – e la serie God, con la scritta “Dio” ricamata sulle banconote, pone l’accento su come il denaro sia diventato per molti il nuovo dio.
Cristiana de Marchi porta in questo modo l’occhio dello spettatore a cogliere il bisogno, sempre più urgente, del crollo dei nazionalismi e degli imperialismi, suggerendo la possibilità che esista un limite del limite che conduce al regno dell’oltre.