Spazio Castello Gallery si compone di due sale adiacenti concepite dall’artista Abel Herrero come sede di conversazione dialogica tra soggetti di diversa natura. Nei due ambienti la materia pittorica si interfaccia con elementi domestici e indumenti, che suscitano istintivamente l’idea di luogo sicuro, rifugio fisico e spirituale.
La vetrina dello spazio espositivo, da concepire come finestra sull’esterno, è tutelata dalla presenza di grandi sacchi di sabbia di colore verde e giallo acceso, che la occupano; queste protezioni la ricoprono quasi interamente, lasciando uno spiraglio in superficie che consenta la vista all’esterno e permetta un controllo sullo spazio circostante, in una sorta di trincea sopraelevata rispetto al livello del suolo.
Nella sala principale l’artista dispone un ciclo pittorico composto da cinque grandi tele verticali, riservando lo spazio centrale al ritratto di Julian Assange. Le tele presentano colori puri dal forte impatto cromatico. La trama ricreata dalla sottrazione della materia pittorica sul proprio supporto crea linee e movimenti palpabili che ricordano la tessitura degli arazzi, ma si accostano, con un salto temporale notevole, ai codici numerici del linguaggio digitale, elemento chiave per presentare il volto di Assange al centro della composizione. La quinta tela si distingue dai monocromi mostrando il volto de-saturato di Assange che emerge dallo sfondo in modo nebuloso; l’alternanza tra grigi e bianchi permette alla figura di emergere, in un avvicendarsi di luci, ombre e tocchi di colore isolati quasi impercettibile.
Figurazione e astrazione hanno un potere alienante sul fruitore. Nella parete frontale, a fare da spartiacque tra i due ambienti, uno specchio convesso di manifattura veneziana racchiude e deforma l’orizzonte.
La seconda sala è una camera da letto abbandonata velocemente; i vestiti sono sparsi in modo scomposto sul letto e una televisione priva di segnale giace abbandonata a terra; lo schermo nero solcato da linee grigie intermittenti e il rumore bianco in sottofondo si fa assordante una volta varcato l’ingresso dell’ambiente. Sul letto campeggia una tela che suggerisce la probabile causa della fuga degli abitanti: un’esplosione.
La grande opera, saturata al magenta, mostra un fungo atomico che sovrasta il paesaggio circostante e le piccole palme spaurite e scomposte dal vento in primo piano. L’immagine è un fotogramma del filmato eseguito dall’esercito americano durante la prima di una serie di esplosioni atomiche sperimentali note come “Operazione Crossroads”; gli esperimenti atomici (ben 67 in 12 anni) interessarono dal 1946 le acque dell’isola Bikini, nell’atollo delle Marshall, paradiso naturalistico del Pacifico diventato poligono nucleare.
Herrero riflette su aspetti cruciali dell’attualità e Cromocracy indaga e interroga i rapporti tra storia, individuo e potere politico.
La mostra è introdotta da un saggio di Andrea Cortellessa, che sostiene: “L’artista, con la drasticità laconica che da sempre lo contraddistingue, pare dirci che nessuno spazio di libertà sia oggi ipotizzabile. Eppure un dettaglio, solo in apparenza naturalistico, forse ci dice qualcosa di diverso. I sacchi di sabbia colorati che ha voluto aggiungere all’insieme, infatti, sono un segno di resistenza: una resistenza affidata a quello stesso colore che, nella stanza adiacente, ci satura del suo rumore. Dove è il pericolo, sempre, cresce anche ciò che dà salvezza”.
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