Esiste un nesso dialogico tra l’enigmatico universo noetico dei concetti e l’altrettanto enigmatica realtà oggettiva? Detto in altri termini, l’atto del comunicare – che diamo sempre per scontato – è effettivamente possibile? Oppure non è niente più che un sogno, un’illusione o una caleidoscopica chimera? Una domanda, questa, che rende ovviamente problematica anche la stesura di queste righe e su cui si sono arrovellati, nel Novecento (ma già a partire dagli ultimi decenni del secolo precedente, in verità ), fior di intellettuali: da Saussurre a Husserl da Heiddeger a Lacan. E con cui anche il mondo dell’arte si è trovato a dover fare i conti. Siamo nella nuova Galleria di Erica Ravenna ubicata nell’antico Ghetto di Roma, fino a due anni aveva sede in Via Margutta, a visitare una collettiva di artisti che, soprattutto a partire dagli anni ’60, hanno indagato le possibilità espressive del segno estetico e la valenza comunicativa di molteplici ibridazioni linguistiche. Parliamo di Carla Accardi, Vincenzo Agnetti, Mirella Bentivoglio, Tomaso Binga, Alighiero Boetti, Jannis Kounellis, Gino Marotta, Simona Weller.
In compagnia della gallerista ci accostiamo con prudenza all’enigma del segno e del suo potenziale significato. «Questa mostra prosegue una linea di ricerca che perseguo da tanti anni», ci spiega. «Mi sono sempre occupata di quegli artisti che hanno focalizzato la loro attenzione sul linguaggio, sulla semiosi, sul significato della parola nell’arte: molti di loro hanno anticipato l’odierna contaminazione totale dei linguaggi. E continuo a parlarne anche oggi, con questa nuova mostra, attraverso un confronto tra alcuni dei maggiori esponenti di questa ricerca – artisti ormai consacrati dalla storia dell’arte –  proponendo allo stesso tempo un dialogo tra le “due metà dell’avanguardia”, ovvero il polo maschile e quello femminile (in passato per molti anni decisamente trascurato)».
Riconosciamo, tra tutti, i segni inconfondibili di Carla Accardi. Quei segni che paiono agitarsi insofferenti del perimetro della tela, ora aggruppandosi, ora disgregandosi in una continua tribolazione, come a voler generare incessantemente nuove, imprevedibili forme. La gallerista ci fa però notare altre opere dell’artista: due Trasparenti in sicofoil (un materiale plastico semirigido) degli anni ’70 con i quali si intende esprimere la drastica – e a nostro avviso ambigua – operazione concettuale della cancellazione del segno. Eccoci di fronte a una cromatica Anatomia di Gino Marotta: un intrico di sembianti umani viene compenetrato da numeri, fonemi, figure geometriche, segni aleatori. Il richiamo a Marinetti è evidente. «La poesia visiva nasce già con il Futurismo, con le tavole parolibere…siamo tutti figli del Futurismo», ebbe a dire in un intervista Mirella Bentivoglio. E i suoi collage esposti in galleria lo confermano.
Le due calligrafie giapponesi su carta di riso di Alighiero Boetti rimandano allo shodō, la “via della scrittura” e, dunque, al clima estetico e meditativo del Buddhismo Zen. Qui il segno, nella sua semplicità e bellezza, viene esaltato e, in un certo senso, generato, dalla candida vacuità della superficie fibrosa.
La mostra sarĂ visitabile fino al 15 luglio 2023.
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