“Mira il mare mà lë”, questo il titolo scelto, è un gioco linguistico che per un urbinate, un italiano e uno spagnolo è naturale comprendere: “guarda il mare lì”. Della mostra, curata da Marcello Smarrelli, “arriva forte la bellezza” – per citare la mia persona, che ricevendo per prima le immagini conosceva il mio pensiero, guardava con i miei occhi e mi toglieva le parole di bocca.
Galleggiamo tra il reale e l’irreale, al limite tra la favola e la vita, a mezza strada tra il paradigma e l’esistente. Davide Mancini Zanchi (Urbino, 1986) affida a un video, a ventisette sculture e milleduecento tele, quelle realtà quotidiane che risultano espressioni di un senso comune troppo legato al materialismo esistenziale e vi contrappone una visione della realtà che va ad abbracciare punti di vista fantastici e metafisici, diversi tra loro. Quello che vediamo esiste, ma non esiste come istintivamente lo crediamo e siamo portati a vederlo. Ma di fatto c’è, forte, sottile, ineludibile: ha un che di grandioso.
Nella manica lunga della Pescheria e nella chiesa del Suffraggio Davide fa abilmente uso di un simbolismo che è insieme accattivante, nel suo essere comune, e feroce nel suo saper prendere le distanze. È così che egli riesce, usando un linguaggio universale, capace di parlare al di là delle parole e dei simboli, ad arrivare a noi e riuscire a instaurare con noi un dialogo, guidandoci in un viaggio personale attraverso un’interpretazione critica e ancor più intuitiva della realtà circostante.
Sulla scia di quel che ha fatto lui, ovvero mostrare un modo di percepire ciò che vediamo totalmente innovativo e sicuramente interessante, invitandoci a riflettere sulla reale entità delle cose, prima di provare a raccontare cosa sia “Mira il mare mà lë”, facciamo due ipotesi su cosa potrebbe essere.
Ipotesi 1: Robe, il corpus di ventisette sculture in legno di cipresso allestito nella manica lunga, in cui sono incastonati utensili e articoli quotidiani, è un insieme di oggetti restituiti, levigati, dal mare. Quel mare che fa da sfondo con una proiezione video lunga oltre trenta metri (Trevor), che bagna Baia Flaminia di Pesaro, dove Davide è cresciuto, e dove lui stesso ha ritrovato questi oggetti, mentre dipingeva, come un contemporaneo impressionista, le milleduecento tele 30×40 cm che compongono 1200 études pour le plus beau ciel du monde, opera colossale che riempie la chiesa del Suffraggio.
Ipotesi 2: Robe, il corpus di ventisette sculture in legno di cipresso allestito nella manica lunga, sono state realizzate in studio, dove Davide ha scelto secondo deformazione personale quali oggetti incastonare, seguendo la precisa idea del gesto che ognuno di noi compirebbe per pulire, o per bere, per salare e per pepare, per indossare scarpe o ancora per ripararsi dal sole estivo come dalle piogge stagionali, se quelle scope, bicchieri, tazzine, salini, calzascarpe e ombrelli fossero incastonati in una forma assai più grande e diversa da quella universalmente nota. Trevor, la proiezione video lunga oltre trenta metri che affianca le sculture, è una visuale in prima persona di Trevor Philips, personaggio immaginario del videogioco della Playstation GTA V, qui cristallizzato in un tempo indefinito in cui si perde nell’orizzonte sconfinato del mare che si apre davanti a lui a Los Santos (doppio distopico di Los Angeles). 1200 études pour le plus beau ciel du mondeè l’insieme di milleduecento tele 30×40 cm (30×40 = 1200) che Davide ha dipinto, sublimando l’incontro tra impressionismo e street art, con bombolette spray di identico colore, per mesi, in studio, in sezioni da cento, a formare una quadreria di monocromi, resi sempre diversi dall’impronta della sua mano che li sorregge nell’atto della pittura.
Entrambe le ipotesi costituiscono una straordinaria, simbolica e labirintica ricerca della verità. Davide Mancini Zanchi ci fa scoprire una realtà nascosta dentro la realtà stessa, una realtà che è celata dal tempo, dagli uomini e dal mondo.
Cosa penseremmo venendo, per esempio, a conoscenza che nell’orizzonte in cui ondeggia il mare (Trevor), compaiono di frequente mani che si sovrappongono alle onde? Se l’artificialità della visione, solo in apparenza naturale, è svelata, forse allora che la prima ipotesi sia falsa e la seconda vera?
È lecito chiedersi se il significato di “Mira il mare mà lë” risieda in ciò che Davide ha realizzato, nei gesti e nei processi che accadono nel corso della sua azione, o se invece sia essa guidata da uno schema concettuale o da un esperimento che lui ha deciso di mettere in scena. Per discernere l’oggetto dobbiamo, necessariamente, considerare la mostra il risultato di un’addizione, ovvero la somma di azione e idea: così facendo possiamo andare oltre la semplice descrizione di quanto si vede per comprende quale gesto abbia in sé, la portata estetica, la natura e la qualità dei processi coinvolti nell’azione.
Non c’è, dunque, un’ipotesi vera e un’ipotesi falsa.
“Mira il mare mà lë” è insieme azione e idea originaria potenzialmente diretta a una serie di azioni. È la prova che le idee toccano la realtà e possono renderla effettiva, perché l’idea del mare di Baia Flaminia che restituisce le sculture che Davide trova mentre dipinge le tele va di pari passo con lo sviluppo dell’idea di un’infinita molteplicità della realtà stessa.
La realtà, sì, è mutevole e osservata dai suoi differenti punti di vista non è mai componibile e pensabile come un unica realtà oggettiva. Essa si ramifica in più realtà, soggette ognuna all’immaginazione, intesa come un pensiero felice, scevro da malinconie, capace di invertire il punto di vista.
Accogliendo l’invito di Mira(re) il mare mà lë, la sensazione più intima è che Davide Mancini Zanchi rivolga un incoraggiamento più indiretto, che consiste nel non considerare tutto come stabilito e definito, ma nell’appropriarsi della materia di cui sono fatte le cose, ovvero nella capacità critica e interpretativa dell’uomo. Così, qualunque cosa sia, sarà tanto più di così.
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