Nel 1875, Arthur Liberty chiese in prestito duemila sterline al futuro suocero e comprò un edificio in Regent Street, a Londra, con soli tre dipendenti e tanta ambizione. Questo l’inizio del mito di un avventuroso imprenditore e di un florido magazzino di lusso londinese che porta il nome del suo fondatore. Merci provenienti da tutto il mondo ed elegantemente esposte da Liberty suscitarono immediatamente fascinazione nella borghesia e il negozio divenne in poco tempo ciò che Oscar Wilde definì il paradiso prescelto per lo shopping artistico. Sostenitore della produzione artigianale e fondatore del laboratorio Liberty Art and Craft che produceva i pannelli squisitamente intagliati adornanti le sale del magazzino, la visione di Arthur Liberty si lega al movimento Art and Craft nel rivolgersi a un artigianato preindustriale e auspicare al decadimento della distinzione tra opera d’arte e merce.
Tale premessa narrativa viene esplicitamente evocata dalla mostra con cui Débora Delmar (Mexico City, 1986) torna dopo tre anni negli spazi di Gallleriapiù a Bologna. Inaugurata alla fine di settembre e aperta fino al 26 novembre 2022, “LIBERTY” presenta una nuova tappa della sua sfaccettata indagine sui sistemi di produzione, distribuzione e consumo delle merci, sugli effetti della globalizzazione, sul confine tra pubblico e privato e su tematiche di classe e processi di gentrificazione.
Il lavoro di Débora Delmar esprime il linguaggio di una generazione di artisti che aveva iniziato a condividere materiali e strategie formali simili. Una convergenza transnazionale favorita della partecipazione simultanea in un mondo globalizzato e iperconnesso. In un articolo dal titolo “Shark and Dolphins” (2013), da partecipante e osservatore Josh Kline aveva rilevato un approccio condiviso nell’appropriazione di immagini, oggetti, brand ed eventi. Impiegando elementi prelevati dal reale, questi gruppi di artisti dislocati nei centri del commercio e della cultura (New York, Berlino e Londra) affrontavano un presente in rapido cambiamento e ne mostravano le possibilità, i problemi e le contraddizioni.
Rappresentativa del panorama appena delineato fu la Biennale di Berlino del 2016 “The Present in Drag”. Curata dal collettivo newyorkese DIS, alla Biennale aveva partecipato anche la stessa Delmar sotto il nome aziendale di Débora Delmar Corp. Realizzando il sarcastico proposito di provocare ansia nei visitatori invece di tenere talks per sedarla, DIS aveva riunito opere capaci di esprimere gli inquietanti paradossi del capitalismo contemporaneo: «The virtual as the real, nations as brands, people as data, culture as capital, wellness as politics, happiness as GDP».
Se nella prima mostra a Gallleriapiù “Stressed, Blessed and Coffee Obsessed” (2019) Delmar aveva impiegato il caffè nelle sue accezioni di merce e ideologia transnazionali per indagare rapporti di classe e aspetti degli stili di vita globalizzati a pochi mesi dall’apertura del primo Sturbuks in Italia, in “LIBERTY” assume anonimi e seriali oggetti e immagini raccolti o acquistati online per costruire un ambiente riservato teso a stimolare una riflessione sulla proprietà e l’abitare contemporaneo.
Varcata la soglia e chiusa la porta alle spalle ho immediatamente percepito una sensazione di confortante privacy dovuta alla certezza di essere protetta da occhi indiscreti. Le ampie vetrine della galleria sono infatti rivestite con una pellicola a specchio utilizzata solitamente in non luoghi quali banche, aeroporti e uffici pubblici, che impedisce ai passanti di sbirciare all’interno. Tracciando una linea di netta demarcazione tra pubblico e privato, questo asettico elemento architettonico influisce sulla percezione e aumenta l’aspetto immersivo.
Negli ambienti l’artista articola la tematica attraverso lampade da esterno protette da custodie in plexiglas con i numeri civici degli indirizzi nei quali ha abitato a Londra e presentati per richiedere la residenza permanente nel Regno Unito e una serie di iconiche villette Sylvanian Families nate e prodotte in Giappone e diventate giocattolo dell’anno in Inghilterra. Queste sono protette da smisurate palizzate che assicurano agli invisibili abitanti una sognata protezione. A collegare le stanze, un ulteriore elemento architettonico: la fotografia scattata dall’artista del tessuto Liberty Carline Rose Tana Lawn cotone stampata in carta da parati e ripetuta serialmente a ricoprire le pareti del corridoio. Nell’ultima stanza una cornice tutela una banconota MEMOEURO acquistata dall’artista in un distributore automatico di souvenir.
In mostra si avverte una minuziosa cura nello studio di ogni singola opera e nella costruzione del dialogo tra esse e con lo spazio. Il complesso origina molteplici connessioni dalle quali si sviluppa una diramazione rizomatica di questioni sociali e culturali. Forse il nucleo centrale dal quale ramificano le riflessioni contenute in mostra risiede nella peculiarità di Débora Delmar di impiegare oggetti ordinari ponendo attenzione sì alle loro qualità plastiche e architettoniche ma insieme evidenziandone la caratteristica di essere anche merci. Una volta svelata la parvenza luccicante si manifestano tutte le disuguaglianze e le contraddizioni.
Dobbiamo riconoscere che ogni opera d’arte è prima di tutto una merce, aveva affermato il curatore Joshua Simon nelle prime righe del saggio “The commodity and the Exhibtion” della serie dal titolo “Neo-Materialism” pubblicata su e-flux. In una società dei consumi globalizzata in cui il reale ha ormai preso l’accezione di merce, essa è l’entità materiale e simbolica che precede e accomuna tutti gli oggetti. Viviamo in un grande magazzino. Viviamo come inquilini stanchi e prossimi allo sfratto in condominio saturo di oggetti e di dati. Siamo gli inquilini di un mondo prefabbricato che ormai appartiene alle merci e non a noi. La merce, scrive Simon, si sente sempre a casa e la proprietà privata rimane il fulcro attivo della civiltà attuale e la chiave per comprendere non solo le nostre relazioni con gli oggetti ma anche le nostre relazioni reciproche.
Nella loro duplice faccia di opere e merci, le sculture e gli elementi architettonici in mostra hanno quindi l’insito potenziale non solo di contenere e mostrare il presente ma di stare al posto di noi inquilini divenendo il solo emblema del nostro essere nel mondo. In “LIBERTY”, le opere legate a esperienze personali paradossalmente accentuano il senso di disumanizzazione. Le lampade con numeri civici lasciano intuire un individuo ormai divenuto un contratto di locazione e un flusso di dati inseriti in sistemi informatizzati che, attraverso controlli automatici, confermeranno o annulleranno la possibilità di risiedere in una nazione barricata entro i propri confini. L’abitare contemporaneo come seriali villette lottizzate che, sicure nei loro violenti recinti, si confortano osservando compiaciute la carta da parati esposta oggi da Liberty.
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