Tutto ha un termine. Ma può essere ricordato, fermato nel tempo. Il primo sguardo sulle stanze di Palazzo Brancadoro restituisce questa certezza. Volevo iniziare il mio breve racconto esterno di “I muri sentono l’amore e la rabbia, ma anche la solitudine e la malattia. Non sanno cos’è la musica, ma la ripetono”, la personale di Giovanni Oberti presso il prezioso Palazzo Brancadoro, a Fermo, con delle parole semplici, che spiegassero la parte concettualmente elaborata del pensiero dell’artista, che riprende oggetti, dettagli, sentimenti e angolazioni del costume quotidiano rivolgendoli attraverso trasformazioni elaboratissime di pensiero, spesso dedicate alla mutazione – o immobilità – del tempo.
Invece, riprendo una breve frase dell’artista, che spiega una delle opere in mostra: «Con un piccolo motore che farà girare a mezz’aria un ramo spinoso leggero su cui è incastrato un fazzoletto di stoffa e dal quale cadono, appese quasi fino al pavimento, due piccole lacrime di cristallo. Questa scultura sarà adornata con fiori freschi che lentamente deperiranno lasciando cadere i petali sul pavimento».
Si tratta di una spiegazione pregressa alla mostra, poche personali righe che Giovanni Oberti ha inviato a Matilde Galletti, la curatrice della mostra a Palazzo Brancadoro, focalizzandosi su un’opera in particolare. Pochi dettagli che raccontano la delicata installazione Lui, del 2020, in mostra in stretto dialogo, ma non attraverso una relazione fisica di vicinanza, con Vanilla Cherry (Lei), del 2016. In queste parole ho scoperto che Oberti è un romantico. L’artista crea una rete narrativa dove tematiche come il doppio, la caducità e fragilità delle cose, l’assenza, il trascorrere del tempo, sono tangibili e sono lì a dimostrarlo attraverso nocciole e mandarini disidratati, la cui buccia è stata trattata attraverso il mezzo della grafite, come fosse un supporto pittorico qualunque, più complesso da rielaborare (Oggetti patinati, 2019); o dalla traccia di un passaggio umano indicata da un posacenere al cui interno sono stati abbandonati dei raffinati mozziconi fatti di steli di fiori di aglio, china e cenere (Vanitas con steli di aglio, 2020).
I fiori sono presenti in ogni stanza. Quando alla 53ma Biennale di Venezia, nel 2009, il duo danese Elmgreen & Dragset ricostruì l’immaginaria casa di un collezionista, attraverso cliché nordici e piccole particolari ossessioni, il principale soggetto era quella sensazione di vuoto, di irrisolto, ma ancora in evoluzione, di abbandono attraverso le tracce evidenti di qualcuno che in quel luogo ci era passato. Le sale del Palazzo Brancadoro, osservato e rivissuto da Oberti, sono luoghi costellati da piccoli e poetici dettagli di un passato recente, forse quello di una coppia, che convive con quello remoto della dimora, come un ospite educato che ha dedicato del tempo e ha vissuto quel posto tra una suonata di pianoforte e due chiacchiere davanti allo specchio.
Come scrive Galletti nel testo critico che accompagna la mostra «Nel lavoro di Giovanni Oberti la pratica dell’osservazione introduce quella della traduzione in segni che sono tracce o scritture o esperienze che si sovrappongono a testi esistenti». La capacità di condensare il tempo in pochi, accurati dettagli che raccontano piccole storie, creandone una complessiva, è stata immobilizzata in queste mura che, come cita il titolo della mostra di Oberti, non sanno fare le cose, ma le sanno ripetere.
La mostra, che è stata prorogata fino al 28 agosto, è stata organizzata da Karussell – Matilde Galletti, Lidia Martorana e Marica Riccioni – che, dal 2018, ha invitato artisti contemporanei a dialogare con luoghi storici marchigiani, selezionati attraverso una grande cura nel dialogo tra spazi e pensieri. Sempre a Fermo, presso Palazzo Falconi, fu ospitata la personale di Silvia Mariotti, e poi, sempre in contesti diversi per periodo e identità storica, Marco Andrea Magni, Claudio Corfone, Ornaghi & Prestinari.
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