Calato nel tempo presente, future-contemporaneo, il mito della sirena Partenope diventa un’importante chiave di lettura della contemporaneità per mano e per intenzione di Fabrizio Cotognini, che a Napoli, alla Fondazione Morra Greco, interpreta la leggendaria figura che all’origine della città ibridandola, come è solito fare, con tante suggestioni, fino a concretizzare, visivamente, il cortocircuito tra materiale ed immateriale, tra reale e morale, che diventano l’uno il pasto e il corpo dell’altro.
Il titolo della mostra che è curata da Lorenzo Benedetti, Phtongos, è una parola che Omero utilizzò per descrivere il canto delle sirene, che nell’immaginario collettivo, seduce gli uomini prima di condannarli alla morte. Il cantore greco, nel XII canto dell’Odissea, narra che Ulisse, avvertito del pericolo dalla Maga Circe, volle ascoltare a tutti i costi il canto delle seducenti e affascianti sirene Partenope, Leucosia e Ligea e pur non ne cadde preda, essendosi fatto legare all’albero maestro della sua barca. Fu Partenope ad avvicinarsi a lui, restandone folgorata dopo un lungo e commuovente sguardo che portava con sé la consapevolezza di quel che sarebbe accaduto: Ulisse, che resistette, avrebbe continuato il suo viaggio, Partenope, che invece fallì, avrebbe perso la vita. La pagina bianca sulla morte della sirena che lasciò Omero, fu riempita dal mitografo Licofrone con la narrazione di quel corpo, esanime, che raggiunse gli scogli di Magaride, dove oggi sorge Castel dell’Ovo, dissolvendosi e trasformandosi nella morfologia del paesaggio partenopeo, il cui capo è appoggiato a Oriente sull’altura di Capodimonte, e il piede a Occidente, verso il promontorio di Posillipo.
Di questa origine l’iscrizione latina attribuita a Epicuro, «Dum Vesuvii Syren Incendia Mulcet» (La Sirena addolcisce l’ardore del Vesuvio) enfatizza un rapporto alchemico, tra acqua e fuoco, tra femmineo e maschile, che Cotognini assume e trasforma, come un moderno alchimista, in un monito per l’essere umano. Favorendo egli, con le sue opere, la fusione tra meraviglioso – sia esso mitico o misterioso – con il reale, offre un’iconografia dell’umanità, del suo desiderio e del suo destino.
Quattro disegni a matita e pastelli di grandi dimensioni (160×120 cm) perimetrano il terzo piano: sono Babele, Ligure Aoide (un’altra parola usata da Omero per descrivere la voce delle sirene), Wunderkammer e Natura Morta con eclisse e Sirena, e affiancano, laterlamente, la grande parete dedicata a Sehnsucht, un’installazione di 24 disegni a biacca e foglia d’oro su carta nera francese. Sehnsucht è una parola tedesca che esprime l’anelito, struggente, bramoso, desiderante e dipendente, verso qualcosa di irraggiungibile.
Formalmente e, perché no, anche concettualmente, il corpus di questi lavori, sempre in reciproca dipendenza con la storia di Palazzo Caracciolo e la memoria artistica affrescata e restaurata, stimola una certa idea di mappa. C’è mappa e mappa. C’è cartografia applicata e percepita. C’è territorio e rappresentazione. Ci sono esploratori e artisti. Fabrizio Cotognini interviene nello spazio e nella storia, quella contemporanea, adottando un approccio che non si basa sul significato tradizionale di mappatura, ma lo espande e lo sviluppa lungo strade non convenzionali e complementari – quelle, appunto, del sé, del subconscio, dell’identità, del corpo, dei pensieri, delle memorie e delle idiosincrasie che interagiscono in ognuno di noi.
Phtongos si completa con cinque teche, che custodiscono altri disegni di Cotognini – dalle vedute di Napoli ai volti di Borges e Durham (sono invece di Brecht, Joyce, Kafka, Rilke, Elliot e Ortese i volti allestiti sulla parete), per esempio, alle sirene, fino a una Moleskine interamente raffigurata – una serie di sculture bronzee, fuse a cera persa, tra cui alcune Architetture Impossibili, Tannhauser e le Arpie, e una proiezione a parete. Alchemicamente e insieme, tutte le opere concorrono a far esplodere la potenza del rinnovamento artistico che Cotognini ha impresso a un mito e a un mistero non sfumandone l’alone meraviglioso che lo circonda ma evidenziando come – in un tempo che ha costretto arte e natura a stringersi ed avvolgersi l’una sull’altra, a immergersi l’una nell’altra e a confondersi ciascuna nel volto dell’altra – l’uomo si immedesimi e cerchi, talvolta anche disperatamente, simboli e narrazioni per comprendere, riflessivamente, la propria realtà quotidiana, la propria archeologia contemporanea.
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