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Diego Cibelli, bellezza e mistero della coscienza, alla Galleria Alfonso Artiaco di Napoli
Mostre
di Fabio Avella
Diego Cibelli è ritornato in mostra, con un incredibile progetto, presso la galleria Alfonso Artiaco di Napoli: un viaggio fantastico alla scoperta dell’essere, alle radici della sua formazione, all’essenza della sua nascita. In risposta a Sigmund Freud che sosteneva che l’uomo è un essere asociale che ha bisogno del sociale per sopravvivere, Clifford Geertz, fondatore dell’Antropologia interpretativa, ha precisato che l’individuo costruisce la propria esistenza al mercato delle emozioni e in particolare ha stabilito che «Il pensiero umano è fondamentalmente sia sociale sia pubblico – che il suo habitat naturale è il cortile di casa, il mercato e la piazza principale della città».
Un vuoto che non ha luogo, difatti, è percorso misterioso e fiabesco, dove la strutturazione della persona viene disvelata tramite aneddoti percettivi e sensitivi che ripercorrono tracce, sentieri comuni anche se solitari.
La prima sala – intitolata È nato Generosity – è caratterizzata da un’abbondanza di forme e stili che riaffiorano dal passato. Sono mutazioni faunistiche e floristiche dei secoli sopraggiunte intatte fino a noi: una generosità storica del luogo, della città, della cultura. Cibelli se ne serve con disincantata maturazione, come se fossero innate nelle sue visioni quotidiane.
Allora la sublime normalità diviene estro creativo di sintesi e innovazione, progresso voluttuoso che trasforma l’argilla in delicata porcellana: complessa, minuziosa e candida. Le sagome grafiche costituiscono lo scenario indispensabile in cui s’innestano delle sculture modellate come piccoli ecosistemi autonomi e vivi, dove uccelli, cerbiatti, volpi, conigli si dimenano, con felice euforia, tra fili d’erba, piante e foglie.
La seconda sala – Metamorfosi – affronta il mistero della vita, da un punto di vista non fideistico ma scientifico. Il legame con il mare per Napoli e i suoi abitanti è indissolubile, questo è chiaro come la fusione culturale che ne scaturisce ma qui il discorso s’implementa. Non è tanto l’unione in evidenza, bensì è la forma biologica che si rivela.
Ciò in cui ci imbattiamo è una raffigurazione attenta e ingrandita, come se la vedessimo al microscopio, di esseri unicellulari, invertebrati, molluschi che riaffiorano dalle profondità marine tramite il disegno che è pratica di conoscenza e indagine. E la stessa disamina da ricercatore si trasferisce incredibilmente nelle sue dettagliate, meticolose, primordiali e complesse forme in porcellana, che sostanziano l’elaborata rappresentazione grafica.
L’Antropologia culturale lo sa bene: è la memoria che costruisce l’uomo, o meglio, sedimenta ciò che eravamo come strato roccioso inscalfibile, come struttura reggente dell’essere presente. Ed è l’argomento che ci attende nella terza sala – Enigma -, un elefante ieratico posto sulla sommità della montagna. Con severa potenza s’innesta al centro della stanza, nonostante la sua fragile fattezza materica, enigmatico nella sua posizione dominante sul monte.
Ma di memoria è fatta anche la fantastica illusione di carillon pendenti dal soffitto che, attraversando il lungo salone, ci immerge in un delicato sogno di un bambino che, destatosi, alza con delicatezza le braccia per toccare immagini pendenti che modellano il suo essere, stilemi di epoche culturali diverse. È Storie per farlo dormire, una costellazione di macchine dei sogni che rievocano il multiforme universo del ricordo che si tramanda. Ed è proprio la trasmissione, la sua efficacia nella strutturazione dell’individuo, che si manifesta in Beata fragilità: la delicatezza di uno sguardo materno, anche qui derivante dal passato, che incontra una nascita. Siamo ormai giunti nella quinta stanza: un video su di uno smartphone ci mostra come una mamma, comunicando con gesti convenzionali e appresi, trasferisce le prime fondamentali emozioni al neonato. Frontalmente, un’altra madre, scolpita in porcellana e dalle sembianze gotiche, ammira con un tenue sguardo, in estasi, i vezzi di crescita emotiva.
Infine, nell’ultima stanza, Diego Cibelli palesa il termine di un viaggio meraviglioso attraverso la conoscenza che è un Vuoto che non ha luogo, perché è un recipiente che contiene, senza mai trasbordare, ciò che il luogo può offrire, con la consapevolezza di chi sa da dove viene per non dover restare relegato in un unico territorio, o meglio colmo di un unico posto.