Ritratto di Tomaso Binga durante la mostra Playgraphies alla Galleria La Cuba d’Oro, 10 maggio 2001, Roma Courtesy Tomaso Binga – Archivio Tomaso Binga
Di una gioiosa cantrice, che con ironica poesia disarma il silenzio in cui ristagna il cambiamento, non invocando che a se stessa il canto — di una carta, Bianca, «Incolore», che pur scrive, da 40 anni, con la voce e con il corpo — racconta la nuova retrospettiva in mostra al Museo Madre di Napoli, la più ampia che sia mai stata realizzata sull’artista: Euforia Tomaso Binga, a cura di Eva Fabbris con Daria Khan, visitabile dal 18 aprile al 21 luglio 2025. Oltre 120 opere, alcune delle quali mai esposte finora, testimoniano l’ininterrotta attività artistica che Tomaso Binga (Bianca Pucciarelli Menna, Salerno 1931) ha intriso di impegno femminista, smantellando linguaggi e convenzioni con la poderosa leggerezza che anima la sua espressione, attraverso la poesia fonetico-sonora-performativa e la scrittura verbo-visiva.
In un tracciato circolare posto al terzo piano del museo, il linguaggio, la voce, il segno e il corpo si spogliano di ogni regola tra i numerosi nuclei dell’artista e sono ricoperti di nuovi significati: dalle sculture in ceramica degli anni Sessanta, da cui sporgono le prime e affilate riflessioni sulla «Donna-oggetto», al predefinito e “prestampato” mondo scultoreo, dove i Polistiroli (1973-74) offrono evocative forme che l’artista «Riempie di significati». Dal progetto della Scrittura Vivente (1975) derivano le fotografie in cui l’artista diventa «Il corpo della parola». L’alfabeto corporale genera delle parole ma il corpo non resta imitazione e conserva intatto il suo potere espressivo, nudo e radicale, che si presta a evocare sacre riscritture, come la potente immagine della crocifissione par derrière nel corpo disposto a “T” all’interno della composizione Mater (1976-77), e vigorose qualità benefiche, come nell’Alfabeto Officinale del 1982.
Il segno corre e si inerpica in una stessa sala: un calligrafico movimento abita le enigmatiche giustapposizioni dei Ritratti analogici (1972-75) per poi divenire “cardiografico” nei frastagliati Grafici di storie d’amore (1972-73), dove sono registrate le fluttuazioni emotive di un rapporto amoroso nel tempo, dall’indifferenza all’amore esaltante. Questi alcuni tra i numerosi lavori in mostra, capaci di testimoniare la varietà di materiali e soluzioni formali che l’artista ha attraversato nel tempo: dalle riflessioni sulla materia, prelevata e risemantizzata, alle dimensioni performative e visive del corpo e della voce.
Ogni esito della ricerca di Tomaso Binga è contrappuntato dal filiforme e diffuso allestimento sperimentale progettato dal collettivo Rio Grande. Un elaborato dispositivo liminale, un “parergon” — termine che vale la pena utilizzare rievocando la prospettiva di Jacques Derrida, opportunamente citato da Stefania Zuliani nel raccontare l’esperienza del Lavatoio Contumaciale, come cornice nella quale Binga compone l’attività di quegli anni in un Autoritratto di gruppo, da cui il titolo del contributo dell’autrice, presente nel volume che affianca l’esposizione, curato con Lilou Vidal, Eva Fabbris e Anna Cuomo (Lenz Press, Milano 2024) — che penetra e riemerge in ogni pagina espositiva, su tutte le superfici. Quanto descritto da Derrida incontra qui una significativa assonanza se si considera che le soluzioni allestitive di Rio Grande, oltre a essere concepite secondo un più immediato «Criterio di affinità» e «Continuità», possono agire nel senso più profondo dei “parerga”: cornici che proteggono «Da quel che manca», da quell’assenza «Che non ha luogo», indefinibile ma colmabile, tra noi e quella «Energia libera e piena e pura e scatenata» dell’opera d’arte e che pulsa con eguale intensità nella pratica di Tomaso Binga.
Con questo progetto, la Fondazione Donnaregina rinnova l’impegno — come ha affermato Angela Tecce, Presidente della fondazione — per una costante documentazione dell’arte contemporanea in Campania, mentre la direzione Fabbris, in relazione con le diverse personalità che animano l’istituzione museale, riconferma il potere comunicativo che risiede nella scrittura di racconti in cui l’innovazione non passa necessariamente per il superamento delle cronologie, delle età dell’arte e delle diacronie, ma si afferma nella rivitalizzazione delle loro modalità narrative, attraverso intersezioni e presentificazioni — di cui è prova anche la mostra Gli anni. Capitolo 1. Episodi di storia dell’arte a Napoli dagli anni Sessanta a oggi.
Operando attraverso il coinvolgimento di gallerie, musei e collezioni private — tra le discussioni che hanno animato gli incontri precedenti alla mostra, si è citato, ad esempio, il fondamentale apporto della Galleria Tiziana di Caro e la preziosa attività di documentazione condotta dalla Fondazione Filiberto e Bianca Menna di Salerno e dall’Archivio Tomaso Binga — il Museo Madre dà vita a una costellazione di unità archivistiche che si configurano come presenze organiche: interfacce di comprensione e verifica, capaci di custodire e, al tempo stesso, rinnovarsi.
In esposizioni come questa, gli archivi e i materiali in essi custoditi fungono da snodi cruciali, assi portanti su cui articolare tanto la ricerca artistica quanto l’impegno politico nel riattivare vicende che hanno reso il territorio campano una fucina vitale dell’arte contemporanea e il palcoscenico di importanti sviluppi culturali. In questo quadro, emergono personalità da «Raccontare con urgenza» — avverte Eva Fabbris — come Tomaso Binga che, oltre la pratica artistica, rappresenta un rifermento assoluto per tramandare una delle esperienze più vivide del movimento femminista.
Si racconta, così, del fare, dell’essere e del sabotare; di quando una donna ascese all’arte con un nome maschile «Privato di una costola», riconquistando il proprio corpo e la propria identità tra chi cercava di assoggettare tutto ciò che rischiava di sovvertire l’ordine prestabilito; di quando il segno, epurato dalle ombre, venne a dimorare in mezzo a noi e l’Euforia si fece Carne, l’errore eversivo divenne norma, e la Carne si fece Verbo.
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