Amalia Pica, (Quasi) Catachresis, 2022. Mixed media, variable dimensions. Courtesy: the artist and Fondazione Memmo. Photo: Daniele Molajoli
Due personali di artisti internazionali della stessa generazione presentate in altrettante fondazioni private dimostrano il loro fondamentale ruolo per la diffusione dell’arte contemporanea nella città di Roma, in accordo con le istituzioni pubbliche, che non sempre dimostrano la stessa capacità di registrare l’attualità . Per interpretare la città eterna l’artista argentina Amalia Pica (Neuquén, 1978), protagonista di “Quasi” alla Fondazione Memmo, ha scelto la chiave della catacresi, una figura retorica che consiste nell’uso di parole al di là del loro significato proprio, come la “gamba” del tavolo o il “collo” della bottiglia. “Mi sono relazionata alla città attraverso la chiave della cultura materiale “ spiega l’artista , che aveva già cominciato a lavorare sulla catacresi alcuni anni fa, dopo aver incontrato questa parola per la prima volta in un romanzo di Roberto Bolaño, I detective selvaggi (1998).
Una caratteristica che accomuna le 21 opere presenti in mostra, curata da Francesco Stocchi, è la loro dimensione domestica, legata ai lunghi mesi di lockdown, che le persone hanno trascorso in case che si erano trasformate in spazi di reclusione, dove ogni oggetto si era caricato di significati simbolici, a volte magici e misteriosi. Così, attraverso oggetti recuperati da artigiani e mercatini romani, l’artista ha costruito un insieme di opere caratterizzate da una rarefatta eleganza, dove ogni scultura possiede una relazione privilegiata con lo spazio che la circonda.
Rastrelli, paralumi, seghe, sedie, scarpe da ginnastica, bottiglie e gambe di tavoli, in un gioco originale e sorprendente di abbinamenti. “Forme e testo diventano un tutt’uno per dar vita ad una mostra che è una sorta di pièce teatrale” aggiunge il curatore. Se Amalia Pica lavora con le cose, l’artista concettuale americano Richard Aldrich (Hanpton,1975) è interessato soprattutto alla pittura, protagonista di Studio su come il tempo esista solo in semitoni, la sua prima grande personale in Italia, curata da Adrienne Drake alla Fondazione Giuliani. Una mostra costruita intorno ad una narrazione intima, simile ad un’esplorazione nella storia della pittura , dove si mescolano suggestioni provenienti dalla cultura pop uniti a esperienze personali.
Si tratta soprattutto di dipinti di varie dimensioni, sia di carattere astratto che figurativo, allestiti in maniera libera e non cronologica, come una sorta di appunti sul tempo che passa e si sedimenta nella memoria dell’artista. “Aldrich è interessato al modo in cui gli oggetti possono essere utilizzati per esplorare il concetto di tempo per la comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda” spiega la curatrice. Grazie alla sua formazione musicale, l’artista pone l’attenzione ai piccoli intervalli che creano tensioni impercettibili, tra l’idea e la sua realizzazione. Il risultato è una mostra che intende riflettere sull’essenza stessa della pittura oggi, in maniera sofisticata e puntuale.
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