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Distruttivo o beffardo? Il diario ucraino di Boris Mikhailov in mostra a Roma
Mostre
Non crede alla verità assoluta, Boris Mikhailov. E non ha mai nemmeno voluto sanzionarla: con le sue fotografie, in serie, sfuocate, ritagliate e colorate a mano, prende piuttosto posizione contro ciò che non gli piace senza alcuno scopo riformativo e senza nessuna pretesa di bellezza. Anzi, pur senza alcun intento di elevazione morale, abbonda di normalità e bruttezza: «una fotografia pessima per una pessima realtà».
Niente a che fare con il reportage, né con il foto-giornalismo e neanche con l’autobiografia: Ukrainian Diary è piuttosto – e al contempo – una vasta antologia e un diario personale per immagini di Mikhailov stesso, dell’umanità che lo circonda e delle vicissitudini della sua nazione. Curata da Laurie Hurwitz, in collaborazione con Boris e Vita Mikhailov, promossa dall’Assessorato alla Cultura di Roma Capitale e dall’Azienda Speciale Palaexpo, prodotta dall’Azienda Speciale Palaexpo e organizzata in collaborazione con la Maison Européenne de la Photographie di Parigi, la mostra con più di 800 immagini è anche, in termini specificatamente espositivi, la più importante retrospettiva fino a oggi dedicata in Italia all’artista ucraino, che fu risucchiato nei circuiti dell’arte dopo essere stato espulso da quelli più convenzionali della società per una fortuita vicenda biografica.
La realtà sospesa che si spalanca di fronte all’osservatore al piano terra di Palazzo Esposizioni è popolata di persone anonime, prive di identità, che però distinguiamo, in serie, attraverso il colore. Rosso, il colore della rivoluzione e dell’impero sovietico, che cinici, vittime, stolti e poliziotti indossavano nelle parate e nelle manifestazioni, kitsch e volgari, in cui il regime usava il desiderio di festa per creare una delle immagini principali della propaganda: il volto felice della vita sovietica con una fiducia totale nel futuro (Red, 1965-1978). Blu cobalto, il colore del crepuscolo e «dell’assedio, della fame e della guerra», dipinto a mano sulle stampe di quella macchina fotografica allacciata in vita per guidare lo sguardo dell’osservatore verso il basso, portandolo vicino agli indigenti in fila per il cibo o sdraiati a terra (At Dusk, 1993). Verde, il colore della palude, «il muschio sulla vita sovietica passata», usato per colorare a mano il monumentale trittico di stampe alla gelatina d’argento che figura un mondo che va tragicamente in pezzi, metafora del deterioramento della società (Green, 1991-1993).
A mettere in discussione la memoria collettiva, e a rispecchiare, ulteriormente, le contraddizioni sociali all’epoca dei tumultuosi cambiamenti in Ucraina legati al crollo dell’Unione Sovietica e alle disastrose conseguenze della sua dissoluzione, intervengono nelle stessa sala le fotografie di intere famiglie, donne e anziani sdraiati come odalische e statue greche con l’aria rilassata, calma e felice in prossimità del lago nel sud dell’Ucraina (Salt Lake, 1986) e la serie Case History (1997-98): ritratti crudi e toccanti di senzatetto, aumentati a Kharkiv in modo drammatico, che Mikhailov – ritenendo che «fotografare queste persone fosse una mia responsabilità sociale» – ha scattato nel suo studio pagando questi soggetti e offrendo loro un pasto e un bagno caldo in cambio di pose.
Ma perché Mikhailov lavora in serie? «Posso spiegarlo con una vecchia parabola su un gruppo di ciechi che non sanno cosa sia un elefante. Per capire l’elefante, ognuno si concentra su una parte diversa: uno afferra la proboscide, un altro la zanna, un altro ancora la coda, e ciascuno dà una descrizione specifica ma completamente diversa di quello che pensa che sia. Ma perché l’elefante sia un elefante, alla fine bisogna mettere insieme le descrizioni. Allo stesso modo, l’idea che una singola immagine contenga tutte le informazioni è una bugia; non credo nella verità assoluta. Esplorare qualcosa da angolature diverse restituisce un senso più elevato della verità. Mi servo della somma delle immagini, della somma delle sequenze per mettere in dubbio la correttezza di una sola percezione possibile. La vibrazione tra le diverse immagini espande le loro possibilità».
Un uomo grasso, un tipo normale, che apparentemente non subiva alcuna pressione ideologica – salvo poi rivelare tratti sovietici profondamente radicati: «di punto in bianco quella che vediamo è la posa di un leader sovietico» (Berdyansk, Beach, Sunday, 11 am to 1 pm, 1981) – introduce al secondo piano, dove un nudo, vecchio e vulnerabile Mikhailov, proprio quando «Il Paese stava cambiando. Se nell’era sovietica sapevamo chi erano gli eroi, ora l’idea stessa di eroe era stata spazzata via. Non rimaneva, quindi, che un antieroe», interpreta l’antieroe che sfida il sistema e irride lo stereotipo maschile idealizzato dal regime sovietico indossando una parrucca, tenendo in mano un clistere, brandendo una spada e un fallo artificiale (I Am Not I, 1992). Mikhailov si è spesso servito dell’umorismo come mezzo di resistenza all’oppressione e stimolo verso l’emancipazione, come accade anche in un altro autoritratto, in uniforme militare sovietica, ma con i ricami tradizionali ucraini al posto delle mostrine, su uno sfondo rosa confetto che sfidava le immagini della mascolinità (National Hero, 1991).
Fotografie di parate, studenti in addestramento militare e giovani che fanno ginnastica colorate a mano con colori sgargianti, per esprimere la propria disillusione nei confronti degli ideali sovietici (Sots Art, 1975-1986); una proiezione di diapositive (Yesterday’s Sandwich, 1960-70) nata da un errore – «inavvertitamente ho gettato sul letto un mucchio di diapositive e due si sono incollate tra loro. Affascinato dall’immagine che ne veniva fuori, una scena completamente nuova e metaforica, ho iniziato a sovrapporre una diapositiva sull’altra, come un sandwich» -; spensierati momenti di ballo all’aperto a Kharkiv (Dance, 1978); scene di routine e di noia nei sobborghi brulli di Kharkiv (Series of Four, early 1980s); e, ancora, una raccolta di situazioni surreali e ridicole – matrimoni, ritratti di neonati o di familiari morti in guerra – che nel loro insieme somigliano a un album di famiglia in perfetto stile sovietico (Luriki – Coloured Soviet Portraits, 1971-85): il percorso prosegue con fotografie che «Facevano sorridere la gente, divertita dall’ironia, ma dal mio punto di vista erano sovversive», spiega Mikhailov, che sovente ha usato l’ironia come arma di sovversione.
Ukrainian Diary si chiude con Viscidity (1982), pensata come una combinazione concettuale di testo e immagine che riflette sulla stagnazione sociale in Unione Sovietica – «La viscidità è la condizione in cui il Paese viveva allora: una vita quieta, tranquilla, anonima, piatta, un periodo di profonda stagnazione politica, una routine immobile» -; By the Ground (1991), che è una serie di fotografie scattate per le strade che «traboccavano di poveri» tenendo la macchina fotografica all’altezza della vita e poi stampate virando al seppia restituire la sporcizia e la polvere e infondere un senso di nostalgia; Black Archive (1968-1979), che documenta clandestinamente la vita quotidiana a Kharkiv e Studies of Rome (2002), una composizione che Mikhailov ha realizzato utilizzando le istantanee del suo archivio scattate durante un viaggio a Roma nel 2002, in occasione della partecipazione alla prima edizione di FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma ideato da Marco Delogu. «Per me, che venivo da un mondo assai diverso, erano tante le cose che sembravano degne di nota! Forse questi istanti non sono tanto Roma quanto piuttosto le sensazioni che mi provocava. E come si può notare, è una metodologia. Roma è “la grande bellezza”, il mistero assoluto! Entrambi impossibili da comprendere, anche se molti hanno provato a farlo».
Distruttivo o beffardo o distruttivo e beffardo? Boris Mikhailov è onnivoro di frammenti di vita e libero, nello sguardo e nell’atteggiamento, quanto basta ad aprirsi a un infinito mondo di possibilità creative. In bilico tra oblio e sonno corpi nudi e scene dissacranti si giustappongono, personaggi ambigui, frastornati e spogliati delle case, degli abiti e dell’umanità stessa, sfidano il sistema o ne sono vittime al limite tra la vita e la morte: non è soltanto una situazione storica e sociale, è piuttosto una comune esperienza contemporanea. Persi in un tempo non definito, siamo attratti e rifuggiamo di fronte a una comunità che pur lontana ci comprende, e in una straniante sensazione di affetto e di vergogna riconosciamo l’intuizione che Mikhailov aveva in mente: «Siamo qui e non ci siamo. È oggi ed è molto tempo fa».