È caratteristico nella sua ricerca artistica, come identitario nella sua vita, il viaggio a ritroso di Fabrice Bernasconi Borzì. In lui convivono due attitudini che connotano, come tutte le sue opere, anche É questo che sognavo da bambino?, la mostra in corso e visitabile fino al 9 luglio nell’artist – run/project space di Parma, DISPLAY.
La dualità ricorrente, cifra stilistica di Bernasconi Borzì, esprime una ricerca ben precisa: quella della cultura d’origine. Nato a Ginevra nel 1989 e tornato a vivere e lavorare a Catania nel 2018, l’artista ama sperimentare con un fare curioso e ingegnoso con cui restituisce immagini prevalentemente semplici, minimali, impulsive e paradossali. Ma soprattutto, autobiografiche e collettive.
Una grande vetrina consente dalla strada di vedere nello spazio un paniere pieno, sospeso e in movimento. Un’immagine tipicamente siciliana, questa del panaru, che Fabrice Bernasconi Borzì ha cristallizato nella sua mente. Scrive la curatrice Ilaria Monti: «Un paniere scende lento dal balcone di una casa, in risposta al grido dal basso di un uomo o una donna: “Cala u panaru!”. Scende e sale il pane caldo come un piccolo miracolo custodito in un cesto di rami intrecciati. Consumato il pane, tutti scompaiono, nessun vociare tra i cortili condominiali, nessun rumore di pentole e cassetti dalle cucine. Resta il silenzio, il paniere di briciole che oscilla per una corrente d’aria o un vento da chissà dove, venti moderati dai quadranti nord occidentali, il Maestrale, lo Scirocco».
Quei venti, ironicamente, soffiano da un semplice ventilatore, mentre è evidente che Bernasconi Borzì stia ripercorrendo, e in un certo senso anche riscoprendo, un mestiere tradizionale e antico come quello dei canestrai, suggerendo una precisa dimensione geografica e antropologica che appartiene lì e in quel momento al suo viaggio, alla sua ricerca. Assumendo la tradizione, decontestualizzandola e tenendola stretta a sé come pura immagine, Bernasconi Borzì lascia che le sue due anime si sprigionino convivendo: artigianalità e tecnologia, folclore e minimalismo, fascinazione e sguardo.
Per arricchire l’installazione l’artista sceglie di esporre un’opera della serie this could be, che riproduce una scena iconica e simbolica del Sud Italia. Questa situazione di strada, resa attraverso una stampa in quadricromia su carta, sostituisce la definizione con la provvisorietà in funzione di una contemplazione che si accompagna a una serie di domande sul senso del fare, dei suoi presupposti concettuali e della sua interpretazione attuale.
Autobiografico e collettivo, libero da qualunque condizionamento e in un turbinio di impressioni, il viaggio di È questo che sognavo da bambino? non consiste nel cercare nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi avventurandosi nella dimensione del tempo e dei ricordi. Come in un sogno, alla fine di questo viaggio restano i ricordi, metaforicamente racchiusi entro quel paniere nella forma di un pane, che è terra, fame e nutrimento, ovvero esperienza ed esistenza.
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