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Edson Luli, “A Glimpse into the Future”: cosa c’è dopo adesso?
Mostre
In “A glimpse into the future” Edson Luli (Scutari, 1989) dà un’occhiata al cielo. Lo guarda e lo fa guardare, senza scrutare nessuna profezia su qualche futuro immediatamente vicino. D’altronde sarebbe impossibile: penetrare l’etere naturale con gli occhi e con il pensiero a tal punto da recintarlo in qualche speculazione, che poi è sempre il preludio per qualche forma di dominio “necessario”.
Quella del cielo è infatti una faccenda antica. Si pensi agli Àuguri romani: i sacerdoti che scrutavano il cielo per dichiarare il corso delle cose future, mantenendo così il loro potere sacro e definitivo. Sacro era anche il recinto perimetrato a partire da cui il cielo si guardava, entrando così nelle vicende della Storia. E sacro è rimasto anche dopo, il perimetro, nello sguardo Occidentale che ha continuato a scomporre, sezionare, dividere e atomizzare tutto il resto delle cose fino ad arrivare all’Antropocene: la profezia più difficile da decifrare.
Così l’occhiata che Luli volge al cielo intercetta la traiettoria di un problema millenario, ma negli spazi di Prometeo Gallery Ida Pisani proprio il cielo diventa un blocco: o meglio, un insieme di piccoli blocchi di cieli tutti uguali che costruiscono sette tetramini, forme tipiche del gioco del Tetris (A piece of sky for future generations). Cieli perimetrati, quindi, che lo sguardo del visitatore contorna e controlla, senza riuscire più ad attraversarli. I blocchi sono immobili – troppo immobili – mentre simulano una caduta perfetta e per ora sempre rimandata al secondo successivo. Si può guardare un cielo che cade, e trovare conforto nella compiutezza di questa fine?
“A glimpse into the future” è la leggera inquietudine della perfezione, come se qui il tempo e lo spazio componessero una invisibile Still Life, metafora dello stesso tempo in cui viviamo : natura morta (quindi muore davvero?) ma anche, nella traduzione letterale, “vita immobile”. Ma allora, prendendo in prestito le domande che la curatrice Elsa Barbieri pone nel suo testo critico, “il pianeta può salvarsi? E ha bisogno di noi per farlo?”
Difficile muoversi tra gli estremi di questi interrogativi: lo stesso Luli non risponde, giocando invece su una sensibilità dolce-amara che lascia intuire un dubbio per poi lasciarlo irrisolto, mentre proprio un gioco dà vita ai tre schermi che campeggiano sulle pareti sotto il cielo liscio e cadente. Ovviamente si tratta del tetris, con i tetramini che richiamano quelli aerei poco più sopra. In Don’t blame yourself! It’s just a game il visitatore che guardava ora ha in mano il controller e muove il cielo: quindi è vero che guardare è sapere che è potere? Che tipo di controllo innesca il tetris cosmico di Luli? Uno senza esito, perchè nel momento in cui lo schermo si riempirà di cielo, quest’ultimo sparirà. Game over ma senza paura: un’altra partita è già pronta a ricominciare in un loop potenzialmente infinito di controllo e caduta, ignoranza e consapevolezza.
Prescindendo da ogni morale, Luli rende allora visibile il cortocircuito del pensiero che si trova avviluppato nella magnitudine della crisi planetaria: un iper-oggetto talmente grande da risultare allo stesso tempo invisibile e viscoso, vicino e lontano.
In questo spazio liminale, tuttavia, anche ciò che è oramai residuo può diventare l’inizio di altro, come le acque dimenticate nelle ventuno bottigliette di Footsteps toward the future che, nel piano sotterraneo della galleria, diventano altrettante fonti di luce poste su un velo di sabbia desertica. Le luci si sfocano nei loro riflessi sulle pareti, quasi a creare uno spazio geologico nuovo, con l’acqua e la plastica che formano le nuove stalagmiti di questa grotta in cui immaginare un futuro forse non del tutto perduto. Le impronte dei visitatori sulla sabbia si accumulano e si confondono, procedendo senza orientamento. Per un attimo il controllo dato dal pensiero a blocchi sfuma, lasciando percepire la magnitudine: della specie, della natura, della loro relazione. Le impronte si guardano solo quando si è già altrove rispetto ai propri passi: l’auto-analisi perturbante di “A glimpse into the future” innesca questo scostamento minimo ma cruciale, in cui l’occhiata al futuro si rende possibile solo a patto di uscire da sé stessi, per ascoltare il silenzio di tutto il resto.
Riflettere per evadere dalla frammentazione, come lo stesso Luli fa quando imprime in Now 1.3.2020, installazione di dieci stampe a getto su carta cotone posta nello spazio di raccordo tra il sopra e il sotto della galleria, questa urgenza allo stesso tempo personale e collettiva. Percorrendo la serie si legge: “Now. 1.3.2020. A frozen stream moving while standing still feeling warm and white. An abstract fear has blinded my ears and covered my mouth. Everything is quiet now”
Insieme a Luli lanciamo al futuro un’occhiata senza ritorno. La risposta non c’è. Nel frattempo continuiamo a giocare, mentre dubitiamo in questa partita senza fine.