Sfruttando l’ambiguità di significato, il titolo EFFETTO NOTTE vuole riferirsi, almeno qui in Italia, sia al cinema (rimarcato nel sottotitolo Nuovo realismo americano) che a una tecnica specificatamente cinematografica. Perché, in Italia, immediatamente richiama il capolavoro del grande regista francese della Nouvelle Vague François Truffaut, appunto Effetto Notte (così tradotto dal francese La nuit américaine, 1973). Principalmente, però, indica quella tecnica cinematografica di simulazione per far sembrare notte quanto, invece, è ripreso di giorno. Ma è anche il titolo dell’opera di Lorna Simpson, divenuta immagine-guida della mostra, per l’appunto Day For Night. Tuttavia, è proprio intorno a tre parole cardine, simulazione e verità e nuovo realismo, che ruota tutto l’impianto della mostra allestita in diverse sale Gallerie Nazionali di Arte Antica Barberini – Corsini, all’interno del baroccheggiante Palazzo Barberini di Carlo Maderno, che si avvalse della collaborazione di Francesco Borromini e Gian Lorenzo Bernini.
Sebbene siano sempre etichette posticce, applicate per dare corpo e consistenza a una visione e a un concetto aprioristici, il nuovo realismo americano è il filone delle 150 opere che il curatore Massimiliano Gioni (che da oltre dieci anni collabora con la Aïshti Foundation) insieme a Flaminia Gennari Santori (ex direttrice delle Gallerie d’Arte Antica), da un’intuizione di Pepi Marchetti Franchi, ha individuato nella preziosa e voluminosa collezione dell’Aïshti Foundation.
Composta da 3mila opere e nata 25 anni fa proprio in Italia, con l’acquisto di opere di Lucio Fontana e di Alberto Burri, nel 2015 l’imprenditore magnate della moda libanese Tony Salamé (che negli anni Novanta prese anche la cittadinanza italiana) e la moglie Elham (della quale, chi scrive, non è riuscita a individuarne il cognome), hanno commissionato all’architetto britannico David Adjaye la costruzione della sede della Fondazione. È nato così un grande edificio con sede a Jal El Dib, a pochi chilometri dal centro di Beirut, che combina uno shopping center (con i migliori brand di moda del mondo, perché Tony Salamé ha accordi di licenza con Céline, Gucci, Dior, Yves Saint Laurent, Fendi, Balenciaga, Burberry, Dolce & Gabbana e altri), un ristorante, un caffè e il museo che, nei suoi quattro piani, ospita parte della collezione del fondatore. Il tutto completato da uno spazio all’aperto che ospita opere d’arte sul lungomare.
E, tra le diverse finalità, Tony Salamé si è posto anche quella di acquisire opere per permettere, a chi non può viaggiare, di vedere quanto è prodotto fuori dai confini del Libano. Per questo, nel tempo, la Fondazione è divenuta punto di riferimento per l’arte contemporanea nel Medio Oriente. Tuttavia, in quella che ormai sembra divenuta una pratica – allestire opere di arte contemporanea al fianco di opere moderne e/o antiche – mappa alla mano si intraprende un percorso che, dopo il principale nucleo approntato nelle sale dello Spazio Mostre del pian terreno, trascina alla ricerca e all’individuazione delle diverse opere disseminate all’interno della collezione Barberini.
Nelle Sale Monumentali del primo piano e nell’Appartamento Settecentesco del secondo piano, progettato per Cornelia Costanza Barberini, eccezionalmente aperto per l’occasione. Sebbene all’ingresso siano collocate delle interessanti installazioni, la parte del leone la fa la pittura (sic!). Infatti, all’ingresso sono le lattine (6 Cases, 2016) di Kaari Upson, il bidone della spazzatura (Untitled – Trash Can, 2011) di Klara Lidén e il neon The Period (2005) che, con caratteri cubitali, compone la scritta AMERICA, di Glenn Ligon che, con un colpo d’occhio, immediatamente catapultano e immergono il visitatore nell’atmosfera tipicamente statunitense, così come l’immaginario collettivo la individua. E come lo stesso Tony Salamé la immagina, attestando la sua sconfinata passione per l’America.
Dopodiché si entra in quel vagheggiato reale espresso quasi esclusivamente attraverso la pittura, che molto ricorda la digerita Art Brut, col tentativo di scardinare i correnti canoni culturali e, con apparente spontaneità, si concentra, appunto, sulla natura, sulla vita quotidiana, con le attuali questioni che coinvolgono larga parte della società civile (dalla violenza di genere alle rivendicazioni di genere, dalla contestazione al capitalismo, alla globalizzazione, alla decolonizzazione), denunciando gli orrori della guerra, attestando come l’odierna società americana progressivamente sbricioli il concetto di verità, basandosi sempre più sulla post-verità, dove le credenze sono più forti dei fatti verificati.
Per lo più concentrati sulla rappresentazione del corpo, da ieratico a spigoloso a fumettistico, liberamente si muovono dal grandissimo al piccolo formato, con tinte nette, che raramente lasciano spazio alle gradazioni e alle sfumature, sono quelli raggruppati nel pian terreno (che, tra i tanti, vede esposti Sterling Ruby, Richard Prince, Jimmie Durham, Kara Walker, Julie Mehretu, Cecily Browm, Simone Leigh).
L’intento di integrarsi il più possibile con le consuetudini settecentesche, è forsennatamente perseguito nella Sala Marmi del primo piano dove, come una quadreria barocca, sono approntate 61 tele (tra cui Urs Fischer e Julian Schnabel) per l’intera altezza delle pareti di cui, ovviamente per quelle più in alto, non è per niente agevole la visione. Su tutto dominano, in alto, i Turisti di Maurizio Cattelan, in basso, l’assente Man on Mower di Duane Hanson. Mentre, nella sala ovale, s’incontra il silenzioso gigantesco niveo Arcangelo di Charles Ray, e, nell’Atrio Borromini, l’ibrido Horse/Bed di Urs Fischer.
Per chi scrive, è sicuramente l’Appartamento Settecentesco quello che meglio esprime la volontà di far convivere antico e contemporaneo, disseminando nelle baroccheggianti sale, opere di notevole impatto, come Root di Rashid Johnson, Grosse fatigue di Camille Henrot, Bliss di Ragnar Kjartansson, Six Nights di Rayyane Tabet, Untitled di Cindy Sherman. Certamente, è una mostra che consente una veloce sintesi e una contenuta panoramica sulla produzione artistica statunitense, vista con gli occhi di un collezionista che ha il suo quartier generale a Beirut.
Piccola nota a margine: in virtù delle finalità che la Fondazione si è prefissata, sono del tutto assenti artisti di quell’altra metà del mondo, quelli che, invece, la Biennale di Venezia ha voluto mettere sotto una forzata lente di ingrandimento.
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