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Electric Dreams: alla Tate Modern arte e tecnologia prima di internet
Mostre
Come doveva apparire l’immediato futuro agli artisti attivi tra gli anni ’50 e gli ’80, cioè in quell’arco di tempo compreso tra la massima diffusione “oggettuale” della tecnologia e l’alba della smaterializzazione di internet? E in che modo noi possiamo rileggere le loro opere, oggi, in un’epoca di tentativi di integrazione tra esseri non solo umani e software? Da queste suggestioni prende le mosse Electric Dreams: Art and Technology Before the Internet, mostra visitabile fino all’1 giugno 2025 alla Tate Modern di Londra. Citando esplicitamente l’omonimo film del 1984 – in cui un super computer diventa talmente cosciente di se stesso da voler soffiare la ragazza al suo programmatore umano – e indirettamente lo storytelling di Philip K. Dick, mostro sacro della tecno filosofia, la mostra celebra i primi innovatori della Op Art, dell’Arte Cinetica, dell’Arte Programmata e della Digital Art, pionieri, tra le altre cose, di quelle che sarebbero state chiamate esperienze immersive e opere generate automaticamente dall’Intelligenza Artificiale.
Realizzata in collaborazione con Gucci e con il supporto di Hyundai, l’esposizione riunisce un’ampia serie di opere di artisti internazionali che hanno lavorato al limite tra estetica, scienza, tecnologia, biologia, senza dimenticare l’innovazione dei materiali industriali, un processo che è andato di pari passo con gli sviluppi dei linguaggi creativi. Si passa così dagli ambienti psichedelici degli anni ’50 e ’60, costruiti ancora in maniera “artigianale”, per esempio utilizzando componenti motorizzati, ai supporti digitali degli anni ’70 e ’80, quando si iniziavano a sperimentare le possibilità offerte dai primi sistemi accessibili di home computing, cioè quando gli elaboratori non erano più solo degli enormi armadi ronzanti e vagamente minacciosi ma erano diventati delle scatole discrete e a portata di mano, placidamente poggiate su una scrivania da ufficio. In quel periodo, i personal computer e i software di editing grafico entrarono in commercio e gli artisti non mancarono di cogliere l’opportunità di sperimentare con l’elettronica, alle loro condizioni.
In esposizione, pezzi storici come la Dreamachine di Brion Gysin, una scultura di luce rotante meditativa, e l’Electric Dress di Atsuko Tanaka. L’artista giapponese, figura centrale nel Gruppo Gutai, realizzò questa opera d’arte indossabile per una performance nel 1956, usando lampadine industriali e tubi a incandescenza dipinti a mano. Era un po’ troppo caldo, pesante e, in caso di cortocircuito, potenzialmente mortale e oggi rende pienamente il senso di un atteggiamento pioneristico e coraggioso.
La mostra alla Tate dà anche l’occasione di riscoprire esperienze storiche di grande fascino, come quella della galleria d’arte londinese Signals, fondata negli anni ’60 dagli artisti David Medalla, Gustav Metzger e Marcello Salvadori, insieme al critico d’arte Guy Brett e al curatore Paul Keeler, accomunati dall’interesse per la creazione di opere interattive, generative e partecipative, utilizzando luce, aria, gravità, movimento ed energia. Significativa anche l’attività del Gruppo Zero, fondato dagli artisti Heinz Mack e Otto Piene a Düsseldorf, in Germania, nel 1957, e che coinvolse anche Yves Klein e Jean Tinguely, tra gli altri. Gli artisti di Zero lavoravano spesso in modo collaborativo, mirando a coinvolgere direttamente i fruitori con progetti espositivi vivaci e coinvolgenti, dalla durata di una notte, gli Abendausstellungen.
Una intera sala è dedicata all’installazione immersiva di Carlos Cruz-Diez, Chromointerferent Environment, presentata per la prima volta nel 1974. Una sequenza di linee parallele in movimento colora il pavimento e il soffitto dello spazio. La proiezione è in continuo movimento, cambiando l’aspetto degli oggetti e delle persone nella sala e creando un effetto disorientante per i visitatori, che sono invitati a interagire con cubi e palloncini.
Non tutti sanno poi che già negli anni ’50 e ’60, aziende tecnologiche come Bell Laboratories e IBM offrirono diversi programmi di residenza per artisti che, spesso, arrivarono a sviluppare applicazioni innovative per le nuove tecnologie. Rebecca Allen inventò una nuova tecnologia di motion capture e modellazione 3D usata anche dagli ingegneri informatici, e Nam June Paik fu uno dei creatori di uno dei primi sintetizzatori video.
La cesura, per la mostra e per l’arte, arriva negli anni ’90, con l’avvento massivo – anche se ancora in una fase embrionale – della rete internet, che avrebbe aperto delle porte nuove anche se non sempre inaspettate.