Bellezza e ansia, angoscia e tensione, emozioni contrastanti, tensioni opposte del femminile materno. Ma poi, che cos’è questo istinto? È un desiderio? È una costrizione? Di certo, c’è qualcosa di tanto profondamente umano e intimo quanto di sociale e di burocratico, normativo, tra uteri in affitto e controllati, leggi per la maternità surrogata, diritto all’aborto e negazione dello stesso, incentivi alle famiglie classiche e nuove famiglie senza figli. Di tutto questo se ne parla a Premamai. La scelta, mostra di Elena Ketra ed Eolo Perfido, aperta dal 18 dicembre, presso la Fondazione Marta Czok di Venezia. Curato da Uros Gorgone, il progetto è incentrato sul rapporto tra la donna e la maternità, «Che spesso smette di essere una scelta e diventa obbligo istituzionale e sociale», si legge nel testo critico che accompagna la mostra. Dopo l’occhio vigile del suo Utereyes, opera esposta recentemente al Museo Madre di Napoli, Ketra torna a riflettere sul mondo femminile con un nuovo progetto, nato dalla collaborazione con Eolo Perfido, noto fotografo e artista di caratura internazionale.
Nella serie di fotografie e video in esposizione alla Fondazione Marta Czok, Ketra indossa forzatamente una pancia in silicone, un trucco usato dalle attrici per simulare la maternità, diventando metafora di tutte le lotte che le donne devono compiere per ottenere la libera gestione del proprio corpo. «Ci sono immagini rarefatte, dove solo la tensione della pelle e la geometria dello scatto bastano a creare bellezza. Ma dentro Premamai c’è soprattutto quello che non si dice, che è ancora bollato tabù, che si nasconde. Tra le meraviglie della maternità da storytelling, c’è un sottomondo intriso di momenti di sconforto, rabbia, solitudine e dolore, che la società coi suoi limiti e imposizioni causa alle donne. Momenti quasi violenti, neri, che travalicano il tempo e le generazioni, e sono sempre lì uguali a loro stessi. L’oppressione politica, le aspettative sociali, la tradizione rigida che ostacolano la libertà di scegliere per la donna un’altra vita, un altro percorso».
E quindi c’è la necessità di una reazione, «Il diritto di poter urlare dopo aver a lungo covato quella rabbia che può nascere solo dentro l’utero di una donna», che nella mostra viene espresso attraverso una serie di immagini rapide, lisergiche, sfuggenti. «Premamai, l’istinto atavico che ci porta a diffondere il nostro DNA, scelta cosciente, scelta imposta, pressione sociale? Le sfumature sono a volte lievi, a volte drammatiche, che smuovono intere generazioni. Di certo questo progetto non intende in alcun modo opporsi o osteggiare la meraviglia della maternità e di tutte quelle splendide donne che la vivono in modo libero. Vuole invece costituire un grido di dolore e di rabbia che si erge ogni qual volta una donna viene obbligata a divenire “fabrica” sociale prima di essere considerata un essere umano».
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