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Simulacri, tributi, citazioni. Dal personale all’esplicito nella ricerca artistica di Elisa Bertaglia
Mostre
Lavorare al fianco di un artista può essere rischioso o, al contrario, può determinare un dialogo stimolante. Se l’aderenza a determinati temi e stili è rigorosamente scelta, come in questo caso, allora si tratta di un’ennesima sfida che viene cercata, analizzata e intrapresa e, dunque, fa parte della seconda opzione data. La scelta di Elisa Bertaglia è, di fatto, stimolante. Les simulacres, mostra personale svoltasi alla galleria di Martina Corbetta, parte anche da questa scelta: dall’aderire e assorbire il fare pittura e le sue motivazioni da un altro pittore. Gabriele Grones e la sua pratica artistica diventano per Elisa una fonte di ispirazione per un nuovo dialogo che l’artista ha deciso di restituire sotto forma di tributo. Elisa e Gabriele condividono vita e spazi da diversi anni. La pratica pittorica e i temi non si sono mai incrociati, ma hanno sempre proseguito in maniera educatamente parallela e diversissima. Grones è minuzioso, preciso, aderente al reale in maniera straordinaria.
Bertaglia è libera, non si pone schemi nel fare la sua pittura, ma focalizza tutta l’attenzione nella resa finale, che spesso è una sorpresa anche per lei. È sperimentale e curiosa. È anarchica e non ha mai aderito a quella pittura accademica che le hanno insegnato a Venezia, intraprendendo una strada ben più personale e interessante. Spesso, ripeto, rischiosa.In questa nuova esperienza, dove Bertaglia si dimostra guerrigliera e coraggiosa – come più volte ho scritto analizzando corpi di lavoro che toccavano i più diversi media e approcci – l’opera subisce nuove evoluzioni. Spinta dalla necessità di rendere un tributo al modus operandi di Grones, Elisa ha dipinto dei soggetti che riprendono Luc Tuymans, riconoscibile nelle forme e nei bordi di nove alberi di pino dal colore scuro che si stagliano sulla tela, alla maniera del grande pittore belga e intervenendo sull’immaginario di ispirazione di Gabriele.
Elisa Bertaglia. Uno scambio raffinato, un tributo di un tributo
Si tratta forse di un nuovo percorso intrapreso a New York, la città di adozione di entrambi i pittori che, ancora fianco a fianco, hanno deciso di farsi accogliere e stimolare dalla vivida metropoli che diventata, da un anno a questa parte, la loro prima casa. Ne Les simulacres, segni e figure geometriche si ripetono in maniera meticolosa e ossessiva: rettangoli che, come reticoli che si assemblano gli uni sugli altri, formano griglie che definiscono degli spazi precisi. È una “nuova” Elisa Bertaglia. Una pittrice che riprende, in maniera esplicita e fiera, un’altra artista. Questi lavori rappresentano infatti citazioni da disegni e dipinti di Agnes Martin. Così come Liz Deschenes, a cui Bertaglia rende omaggio. Si tratta dunque di simulacri – come cita il titolo – dentro cui l’azione pittorica si rifugia, per poi riemergere più originale e riconoscibile di prima. Non è un “annientamento dell’aura”, alla maniera di Benjamin, ma è un inno a questa. E a tutte le auree. E gli elementi riconoscibili della pittura di Elisa sono sempre presenti: nell’Untitled dedicato a Tuymans, ad esempio, si scorgono le delicate tracce a matita che riprendono i segni e la natura della Bertaglia.
Dunque non è una nuova pittura: è sempre appartenente all’artista che sperimenta e interpreta ciò che assorbe alla sua personale maniera. L’artista che si pone al di la dei suoi limiti e zone di conforto e che, come nel caso di questa nuova serie di Untitled realizzata negli Stati Uniti, si mette in gioco decontestualizzando il suo lavoro, il suo modo di fare arte e colore, in dialogo, relazione e scontro con maestri dell’arte che ha confrontato vis a vis nei musei newyorchesi.
Agnes Martin è la traccia di questo corpo di lavori. Deschens parrebbe un esercizio lezioso e abile. E poi Luc Tuymans, riconoscibile e speciale grazie all’esplicito tributo che Bertaglia ha espressamente elaborato ponendo in relazione uno degli elementi riconoscibili dell’artista (le forme degli alberi) con la sua pratica pittorica, più rumorosa, movimentata, in costante mutamento. Diversi dal suo percorso sono anche quei teschi che si accumulano come montagne di morte colorata, o i fiori leziosi che, dipinti come un fittizio ornamento, ma una densa stratificazione stilistica, richiamano quei viaggi in oriente che Elisa aveva affrontato in media diversi come ad esempio quello della ceramica e della carta leggera. E poi il colore che non è mai uniforme, ma è composto da particelle organiche che evadono, si alzano, riscendono dalla carta e dalle tele. Sono degli sfondi elaborati e particolarissimi, che non si ritrovano altrove, sono solo lì.
La natura che si ripete, come un elemento modulare che riempie quel luogo spazio temporale che è la tela. Sono liane, sono erbe, sono presenze mosse. C’è anche un altro nuovo corpo di lavoro composto da piccoli dittici su legno, un dialogo intimo – dato dalle dimensioni probabilmente – tra l’immaginario di Bertaglia e un mondo a parte, antico, dove l’artista riporta raffigurazioni medievali sottolineando, o eludendo, degli elementi attraverso ombre, velature decise e invasive di colore. Da un lato la tavola è dipinta interamente da lei: Elisa sintetizza le forme, le rende quasi macchie colorate che si muovono concentriche.
Ancora una volta ci spinge a una nuova avventura. A un nuovo percorso da osservare: tracce bianche che sembrano fatte di spray; il fucsia e il rosa che ricorrono; la figura che riemerge qua e la; giochi di sparizioni o accumulazioni; carte millimetrate; fantasmi del passato; scheletri e simbologie antiche, retrò e cupe; lievi tracce di matita; piccoli segni di natura; fiorellini rosa, azzurri e rossi. Ispirazioni riuscite che non cessano mai di stupire, analizzare, imparare.