«Questa mostra è un film, sono tanti fotogrammi da esperire come un unico racconto in cui ogni dettaglio crea dei nessi; quella che sembra una trama molto complessa, in realtà rivela una riflessione dell’artista sulla propria ricerca». Con queste parole Luca Lo Pinto – direttore artistico del MACRO di Roma – spiega la grande retrospettiva a sua cura dedicata a Emilio Prini (Stresa, 1943 – Roma, 2016), aperta fino al 31 marzo 2024 al museo di via Nizza 138.
…E Prini è il titolo della personale realizzata in collaborazione con l’Archivio Emilio Prini e grazie al coordinamento curatoriale di Matteo Binci. Si compone di 250 opere prestate da varie collezioni istituzionali e private – sia italiane, sia internazionali – ed in molti casi si tratta di materiale inedito. Il percorso segue un ordine cronologico che copre un arco temporale di cinquant’anni: dal 1966 al 2016. «Ho scelto di seguire un sistema di organizzazione espositivo apparentemente molto convenzionale – ha affermato Lo Pinto – perché il lavoro di Prini è talmente ricco “sotto” da non aver necessità di aggiungere altro “sopra”».
L’esordio di Emilio Prini è avvenuto nel ’67 alla Galleria La Bertesca di Genova, in occasione della mostra Arte Povera – Im Spazio, a cura di Germano Celant, che ha sancito la nascita del movimento dell’Arte Povera. Egli partecipò con due opere: una consisteva in una serie di neon posizionati lungo gli angoli di una sala come strumento di rilevazione dello spazio e l’altra in un rocchetto in cui questi stessi neon erano arrotolati. In …E Prini sono esposte documentazioni fotografiche della prima, mentre la seconda trova spazio in tutta la sua concretezza. Successivamente ha partecipato ad alcune tra le più importanti mostre dell’epoca (Arte Povera alla Galleria de’ Foscherari di Bologna, Op Losse Schroeven, When Attitudes Becomes Form, Konzeption/Coception, Information, Contemporanea), ma dal ‘75 la sua attività espositiva si è ridotta sempre di più.
Prini ha sempre concepito l’arte come un processo costante di scrittura e riscrittura; perciò ha prodotto poche idee e opere su cui ha continuato a intervenire nel tempo, rielaborandole, modificandole e rimodellandole, lasciandole così in una perenne condizione di “non finito”. Spesso l’ha fatto attraverso gesti minimi, come cambiare il titolo, isolare un dettaglio dell’immagine o modificare la data. Di conseguenza ad essere messa in discussione è l’autorialità, l’originalità e l’unicità dell’opera. È questa peculiarità a rendere Prini un artista assai attuale, poco convenzionale e radicale nelle sue scelte. A differenza di molti altri suoi colleghi, egli dimostra di non volersi identificare con un’arte riconoscibile, dando vita ad opere che, se osservate singolarmente, sembrerebbero create da un artista sempre diverso.
Si potrebbero riportare molteplici esempi della sua tendenza a rilavorare un’opera e a riscriverla continuamente; tuttavia, ci limitiamo a citare Standard del ’67, un’asta in ferro di 6,5 metri la cui conformazione varia a seconda dello spazio in cui è inserita. Quell’anno l’opera fu collocata nella Galleria La Bertesca solo per essere fotografata, poi nel ’73 venne installata alla Galleria Toselli. Prini riproporrà questa immagine in diverse versioni anche in altre opere successive. In generale, tutte le opere ideate tra il ‘67 ed il ‘64, o saranno esposte molti anni dopo, o rimarranno soltanto scritte su carta.
Dall’inizio degli anni ’80 Prini limiterà ulteriormente la sua presenza alle mostre, ma proseguirà con una prolifica manipolazione del proprio lavoro su cataloghi, poster e altri stampati. Questi ultimi – insieme a fotografie, inviti e dattiloscritti su carta – sono allestiti lungo il perimetro della sala grande del MACRO, mentre al centro sono disposte sculture e oggetti tridimensionali (tra cui Passi, che riproduce per l’appunto i suoi passi per mezzo di elementi geometrici in legno). La quasi maniacale attenzione di Prini nei confronti dei cataloghi e della grafica era dovuta al fatto che egli era convinto che questi strumenti costituissero la vera memoria storica del suo operato (e in generale dell’arte), in quanto destinati a rimanere nel tempo, a differenza delle mostre che, una volta terminate, sarebbero state dimenticate. Ecco svelato il motivo per cui al MACRO sono esposti molti inviti impostati graficamente da Prini per mostre di pura invenzione o comunque mai realizzate.
«Per lui l’opera – afferma Lo Pinto – contava a prescindere dalla sua manifestazione fisica. Nel farsi della mostra, per analizzare e verificare quello che avevamo davanti, abbiamo dovuto contattare critici o artisti che in passato avevano avuto a che fare con lui per capire se effettivamente quanto riportato da Prini corrispondesse alla verità o se ci avesse sottoposto ad una “trappola”. Perché effettivamente Prini era solito sottoporre questo genere di “scherzi” alla storia, al futuro».
In esposizione vi sono anche gli studi fotografici che Prini inizia nel ’67: rilevamenti di un muro in curva, di una strada in discesa e di un gradino come esplorazioni e misurazioni di porzioni di spazi urbani di Genova, la città in cui ha vissuto più a lungo prima di traferirsi a Roma. Solo nel 1995, in occasione della mostra Fermi in Dogana all’Ancienne Douane di Strasburgo, l’artista tradurrà questi rilevamenti urbani in volumi architettonici, dando vita ad oggetti tridimensionali in legno o in ferro intesi ad esplorare il concetto di calco.
Invece, a partire dal ‘69 Prini comincia a sperimentare dispositivi elettronici come registratori, macchine fotografiche, televisori e cineprese, al fine di indagarne il concetto di esaurimento dovuto all’uso prolungato. Esempio emblematico in questo senso è Magnete, 5 min. che sperimenta le capacità funzionali di una macchina fotografica Exakta, fotografata e poi riprodotta in 18.915 copie, stampate e poi impilate. Un altro corpus importante di opere in mostra è rappresentato da disegni su carta (rigorosamente di formato “standard” A4), realizzati per mezzo di una macchina da scrivere Olivetti 22. Lì l’artista elabora formule matematiche, relazioni architettoniche e annotazioni poetiche che costituiscono brillanti indagini a proposito del rapporto tra spazio, tempo, luce ed esistenza. In un testo critico di Luca Lo Pinto si legge: «Molte delle opere di Prini sfidano la percezione e suggeriscono una visione insieme analitica e immaginifica della realtà ottenendo il massimo risultato con il minimo sforzo». È il caso dell’ironico, seppur verosimigliante, ritratto di Napoleone, eseguito con una macchina da scrivere sfruttando solo il tasto della “O” e della virgola.
Infine, degna di nota è certamente l’opera del 2008 intitolata La Pimpa Il Vuoto, realizzata per una personale alla Galleria Giorgio Persano di Torino. Si tratta di 22 stampe fotografiche in bianco e nero a parete che hanno per protagonisti i celebri personaggi de La Pimpa e Armando, nati dalla penna di Francesco Tullio-Altan. Se nel 1958 Yves Klein tramutò il vuoto in un’opera d’arte, Emilio Prini, grazie a quest’opera, vuole comunicare che il vuoto non esiste e lo dimostra esponendo vignette che non sono arte, sono fumetti. Quindi non simula il vuoto come Klein, ma lo raffigura.
Infine, …E Prini ci presenta un artista che c’è e non c’è, estremamente ironico e spiazzante nel suo modo di gestire una vita ed una carriera che ha risposto alle dinamiche tradizionali del sistema dell’arte solo in piccola parte. Di fatto è stato un artista che non si è mai adeguato perfettamente alle regole di questo settore, ma che, anzi, ha fatto sì che avvenisse il contrario. Tutta la sua ricerca si pone volontariamente come sfida nei confronti dei canoni di storicizzazione e degli strumenti di interpretazione dell’arte. D’altro canto, questa mostra riesce nella sfida di organizzare al meglio un lavoro assai complesso realizzato da una delle figure più enigmatiche della storia dell’arte contemporanea.
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