Ensemble è un incrocio di sguardi che prima di tutto celebra un legame forte, quello dell’amicizia che lega Julie Mehretu con Nairy Baghramian, Huma Bhabha, Tacita Dean, David Hammons, Robin Coste Lewis, Paul Pfeiffer e Jessica Rankin. A cura di Caroline Bourgeois e dell’artista, la mostra è la perfetta traduzione visiva della capacità di Julie Mehretu di trascrivere, attraverso l’incrociarsi di influenze architettoniche, politiche, sociali e culturali, il caos di un mondo in costante cambiamento.
Nelle sale di Palazzo Grassi troviamo la sua storia personale, che l’ha vista nascere in Africa e l’ha portata in America. Ovviamente una storia raccontata a modo suo, in un percorso libero e non cronologico che raccoglie opere dei suoi ultimi 20 anni, insieme a opere più recenti, prodotte tra il 2021 e il 2023.
Una stratificazione in costante evoluzione. È questo uno degli aspetti centrali da tenere a mente per comprendere le opere di Julie Mehretu. Noi vediamo solo l’ultimissimo strato del lavoro, di una moltiplicazione della superficie delle immagini a cui fa eco la dimensione collettiva, l’idea di lavorare insieme, evidenziata dalla presenza in mostra di opere dei suoi amici, capaci di creare un dialogo fecondo con il suo stesso lavoro.
Nessun artista basta a se stesso, Mehretu dimostra che è proprio nel dialogo con gli altri artisti, con le loro idee e sensibilità, che emergono preoccupazioni e linee di forza comuni, che la ispirano creando opere che risuonano con il suo lavoro.«Tacita Dean e io abbiamo lavorato fianco a fianco e lei ha creato opere su di me che facevo opere: siamo state colleghe, amiche e madri insieme. Jessica Rankin è la mia ex moglie e abbiamo costruito insieme le nostre famiglie e i nostri studi. E c’è un dialogo tra me e Robin Coste Lewis, che ha realizzato un elemento scultoreo per un mio dipinto; abbiamo dialogato a lungo e abbiamo voluto esporre i nostri lavori l’uno accanto all’altro.»
Continuità ed un incessante rinnovamento. Sono questi i due fili conduttori che ritroviamo in mostra. I disegni di città o di architetture che formavano lo sfondo dei primi lavori un po’ alla volta scompaiono, ma le opere più recenti sono ancora costituite da strati successivi in grado di dare grande profondità alle tele. Molte rimandano a eventi contemporanei, come la guerra in Siria o il pericolo delle migrazioni: ci ricordano che l’artista, anche quando utilizza un linguaggio metaforico e astratto, è tutt’altro che isolata dal nostro mondo e dalle sfide che questo deve affrontare.
«Per molti dei primi lavori, pensavo all’architettura come a una metafora, un modo per far coincidere lo spazio sociale e il tempo. È un modo per interrogare queste idee: il tempo non è solo una sequenza lineare di passato, presente e futuro, ma piuttosto questi concetti sono incorporati l’uno nell’altro e c’è questa sorta di riverbero di essi attraverso l’architettura stessa.» Mehretu descrive il processo creativo come una germinazione che parte dalla sovrapposizione degli strati che compongono il dipinto. Le prime “mappe” disegnate con inchiostro di china erano infatti ottenute dalla sovrapposizione di fogli di carta e pellicole di poliestere traslucido (mylar).
Ed è così, uno strato dopo l’altro, che si compone questa mostra, in un dialogo perfetto con gli spazi di Palazzo Grassi, un alveare di stanze, corridoi, sale, che permettono al visitatore di scoprire tutte le sfaccettature di questa artista, dalle grandi opere prodotte con l’aiuto del suo studio alle piccole tele, più intime, che l’artista crea in solitaria. Un percorso interrotto e arricchito dai racconti degli amici di Julie Mehretu, che la accompagnano. Ed è proprio questo dialogo costante che crea una mostra forse non semplice da leggere al primo sguardo ma che riassume perfettamente la grande profondità che l’artista ha nel guardare e rappresentare il nostro mondo.
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