“Aspetta, faccio un’altra foto”. Niente. Non riesco a riprendere questa luce. Riprovo. Eppure è qui davanti a me. Un radiatore e un thermos poggiati a terra, dentro la prima cappella angolare della chiesa di San Giuseppe delle Scalze. Sono innervati da uno strato di vetro, che avvolge lo spazio con una luminosità calda quanto sfuggente. È come se accettasse di donare la propria radiazione solo al tuo occhio nudo. La camera non riesce a cogliere quella sfumatura, simile a una brace che va spegnendosi. In effetti High Windows (2020), dell’artista polacco Mateusz Chorobski, non è che il primo impatto con lo spazio delle Scalze, dopo la strana sensazione dei corridoi di luce, aperti dai fari di Rood Screen (n°1, 2, 3 – 2021). Come il segno della croce che ti immette in uno spazio rituale, così l’effetto stordente di questa doccia di color pozzolana ricalibra la tua iride e oscura ogni rifrazione digitale. E ti avverte che Chorobski è intorno, qui, presente a sé stesso e a te. Ti chiedi come un tubo e un neon possano farti questo effetto. È la domanda che ti poni continuamente una volta entrati nella chiesa di San Giuseppe delle Scalze, a Napoli, per la mostra “Mateusz Chorobski – Namsal Siedlecki”, a cura di Pier Paolo Pancotto.
La domanda ha più risposte, tra cui la dimensione performativa di Chorobski, che ha sorvolato la sua città natale, Lodz, con un aereo a reazione (The Draught, 2013), che si è immerso in un lago recitando poesie polacche (Diving, 2010) e che ha sequenziato simbolicamente valore, vita ed esistenza (cibo vestiti alloggi medicine igiene) in colonne metalliche di grosz fuse (moneta polacca) in 997,10/2 (2020). Nel costante tentativo di lenire la sofferenza, l’alienazione propria e quella di altri, l’artista polacco compie ogni volta il miracolo della restituzione, della rivitalizzazione di materia morta, di materiali esausti, di funzioni cadute in disuso, come può essere un radiatore che per anni, stancamente, ha scenografato l’attraversamento di spazi quotidiani pubblici, di ospedali, scuole, uffici polacchi. E da qui estrarne una vibrazione luminosa, un albore insperato, rimarcando una fredda significazione del passato e renderlo segno degno, non solo della propria esistenza ma di una comunità intera.
O, viceversa, tralasciare e rafforzare ogni distanziamento emozionale da A Step Away (2020), oggetto d’arte apparentemente declassato a funzione di illuminazione ambientale, che riscalda e ravviva, spogliata di ogni compiutezza, come un oggetto dimenticato da chi ha lavorato in questo spazio, forse operai o forse l’artista, chissà.
Assi di legno, circuiti, fili scoperti, in realtà non ce li regala solo Chorobski, come dissonante sensazione di forma che si fa torpore, di arte che si fa quinta. In questo meraviglioso abbandono della Chiesa di San Giuseppe delle Scalze, che nel suo donarti ogni volta di più, tra marmi spezzati, colpi di calce e fili scoperti, tra sagrestie abbandonate e intonachi slabbrati, quel segreto del tutto che si schiaccia e del tutto che si sedimenta dolcemente, essa ci ricorda come tempo, luce e materia, a contatto con il nostro sguardo, sembrano riattivarsi come reagenti organolettici, come fluidi elettrici pronti ad accendersi.
E questo mentre Namsal Siedlecki, artista toscano nato a Greenland (USA), avverte di contro una spietata necessità del vuoto, da riempire attraverso una infinita ricerca dell’altrove materico ed emozionale, lasciandosi travolgere dalle malte sacrali di Katmandù in Mvaḥ Chā (Crisalidi, 2020), dalla nostalgia di un archeologo tedesco che non vuole lasciare Roma (Trevis Maponos, 2020), dal fragore dei rig, i miner che dissotterrano criptovaluta (White Paper, 2018).
Se per natura siamo capaci di maneggiare strumenti e oggetti inanimati, l’artista di Seggiano esprime invece una particolare dote nel dare corpo e vita a ciò che è invisibile, come a un processo di elettrolisi, o a nature intoccabili, quali il desiderio o la devozione, restituendone sostanza in cornici di senso mitologico, ai limiti di un animismo tecnogeno che si fonde con una ancestrale e quasi casuale bellezza steatopigia.
Se i lavori di Namsal presenti alle Scalze sembrano fissare dei paragrafi di una antica parabola (un otre, le spoglie di un lupo, dei piedi santi e un viandante) sono in realtà frutto di una sapiente costellazione di trattamenti tecno-scientifici. Rendering, zincatura, alluminatura, galvanizzazione, cristallizzazione. Un processo inverso, antico, di “astrazione” tecnologica finissima, “atta a una figurazione” della materia apparentemente grezza ma carica di ioni positivi e negativi, nel segno dei maestri scultori nepalesi, unici a scorgere il divino lì dove cade argilla, sterco di vacca e pula.
Nel delicato equilibrio tra addizione e sottrazione (Viandante, 2020), tra umido e secco (Otre, 2021), tra morte e persistenza (Limes, 2021) Siedlecki ostenta i piedi del santo-artista (Scalze, 2021), ancora una volta sull’altare, a darsi/dannarsi, per raccogliere quella pesante e mai gratuita funzione, profetica quanto dolorosa, di attraversamento, promessa e passaggio, di stato come di consapevolezza. Un compito che sta a noi fare nostro, accettandone la sfida e il rischio di lanciarsi «Alla conquista degli spazi interstellari / e vestiti di grigio chiaro / per non disperdersi».
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